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Isolamento e alienazione nella fantascienza di Old Skies

Isolamento e alienazione nella fantascienza di Old Skies

C'è un aspetto in particolare che mi è rimasto dentro di Old Skies, ennesima bella avventura grafica di Dave Gilbert, che come suo solito racconta una storia interessante appoggiandosi su un gheimplei da punta e clicca moderno e trovando la giusta sintesi fra umorismo, dramma e tensione. Al centro delle vicende ci sono gli agenti di un'organizzazione futuristica che offre la possibilità di viaggiare nel tempo a pagamento, per osservare eventi ma anche per influenzarli e tornare quindi al proprio tempo trovando delle differenze. Chiaramente, la cosa è molto regolamentata e c'è tutta una serie di modifiche che è vietato fare perché legate ad avvenimenti o a persone che si ritengono intoccabili, dato che porterebbero a cambiamenti troppo radicali nella storia del mondo. E perché tutto questo possa funzionare, gli agenti dell'organizzazione devono essere in un certo senso fuori dal tempo, immuni alle modifiche.

Questa cosa viene visualizzata con una sorta di onda temporale, che di tanto in tanto vediamo colpire il mondo di gioco, applicando cambiamenti, talvolta sottili, talvolta ben più incisivi, a tutto ciò che gravita attorno ai personaggi. Personaggi che, però, ricordano perfettamente tutto quello che scompare, cambia, va perso. Va da sé che, per poter essere agenti efficienti e non impazzire, devono condurre una vita isolata, evitando il più possibile di stringere legami affettivi forti con persone che non fanno parte dell'organizzazione. Questo perché, con una linea temporale che cambia di continuo, a causa di battiti d'ali di farfalla spesso imprevedibili, è estremamente probabile, anzi forse addirittura certo, che se ti sposi, magari fai dei figli, la tua famiglia possa cambiare completamente, o addirittura scomparire da un istante all'altro. Solo che tu ne manterresti consapevolezza, conservandone ricordi con cui sarebbe complicato continuare a vivere.

Si crea quindi un contesto di persone dalla vita alienante, immerse in un mondo dalla fragilità molto maggiore rispetto a quella della già flebile realtà in cui viviamo, costrette a rimanere isolate in una bolla minuscola e inevitabilmente portate a infrangere ogni tanto queste regole, talvolta per errore, talvolta in totale incoscienza, quasi sempre con conseguenze devastanti per la loro psiche. Tutto questo, poi, si aggiunge alle classiche regole del viaggio nel tempo e alla difficoltà di mantenersi impassibili e ligi al dovere quando, inevitabilmente, ci si ritrova a un passo dall'opportunità di cambiare eventi del passato che potrebbero rendere il mondo un posto migliore, o anche solo che potrebbero migliorare la nostra vita. E non si ha il permesso di farlo.

Non so se sia una cosa voluta, ma questo filo narrativo, che ovviamente diventa centrale nel racconto e fondamentale nello spingere i vari personaggi al termine del proprio arco, mi è arrivato come una allegoria della pressione, dello stress e del senso d'isolamento che colpisce chi lavora in settori dalla pressione psicologica estrema. Medici nei reparti d'urgenza o soldati in zona di guerra, per esempio, tutta gente la cui attività consiste nell'avere quotidianamente a che fare con situazioni di vita o di morte, in cui la propria bravura, freddezza e capacità decisionale possono decidere del destino altrui. Chiaramente quella raccontata da Dave Gilbert è una versione estremizzata e romanzata di questa cosa, ma ci ho visto dei paralleli abbastanza evidenti in quella situazione di bolla, dove solo chi ci si trova dentro può realmente capire e condividere l'esperienza brutale che costituisce. E quei momenti in cui la protagonista Fia Quinn vaga solitaria per la città, trascorre le serate al bar col suo collega, fatica a imbastire relazioni umane e sceglie anzi di evitarle, ma non può fare a meno di esserne attratta, mi hanno fatto venire in mente sequenze come quelle di The Hurt Locker in cui Jeremy Renner gira alienato fra gli scaffali del supermercato e fatica a relazionarsi con la sua famiglia.

È un parallelo forzato e che ci vedo solo io? Può essere, anche se credo sia innegabile che a livello tematico il gioco spinga in quella direzione, anche se magari l'allegoria specifica non è un qualcosa che Gilbert ha inseguito volontariamente. E in fondo vale sempre l'idea che, una volta consegnata al mondo, un'opera sfugge al controllo del suo creatore e assorbe significati non necessariamente "volontari". Comunque è un bel gioco, dategli una chance.

Viva il multiplayer | Cover Story

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