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Rosewater e la lunga e complicata infatuazione fra RPG e punta e clicca

Rosewater e la lunga e complicata infatuazione fra RPG e punta e clicca

Quella delle contaminazioni tra le avventure punta e clicca e i giochi di ruolo è una storia che va avanti fin dagli anni Ottanta e la cosa, tutto sommato, ha senso: al di là di eccezioni, divagazioni, filoni e altri oni assortiti, sono due generi che basano gran parte della loro ragion d’essere sul desiderio di raccontare una storia, possibilmente sfruttando il gheimplei, l’interazione, come strumento per portarla avanti. E quindi perché non provare a contaminarsi? L’esempio più classico e insistito è sicuramente quello dei coniugi Cole, che nel 1989 creano per Sierra la serie di Hero’s Quest/Quest For Glory, strutturando attorno a un sistema di gioco da RPG all’acqua di rose un classico punta e clicca con enigmi da risolvere tramite il dialogo e la combinazione di oggetti. Nel loro gioco possiamo quindi scegliere la classe del personaggio, che detta abilità diverse da far crescere e tramite cui è possibile approcciare gli enigmi in modi differenti. Ma non solo, ci sono anche i combattimenti, perché a quell’epoca ancora più di oggi l’idea di un RPG senza spadate e duelli è inconcepibile, e in generale una struttura un po’ più aperta rispetto a quella classica dei punta e clicca. Quest For Glory era un esperimento affascinante, che andò avanti per quattro solidi episodi prima di lasciarsi trascinare nel collasso della Sierra distrutta da Activision a fine anni Novanta e chiudere con una quinta uscita controversa. Un collasso che, per altro, devastò King’s Quest, con quell’ultimo capitolo che in fondo anche lui pasturava in territori più o meno da GdR d’azione.

Nel frattempo, i Cole si erano anche concessi una divagazione su altri lidi, applicando la loro idea di avventura con elementi da gioco di ruolo al più ovvio dei contesti, l’adattamento videoludico dei libri di Shannara. e tirando fuori un gioco delizioso. Ma la loro storia di contaminazioni si conclude più o meno lì, per regalarci poi un ultimo refolo di vita quando anche loro si lanceranno nelle forche caudine degli omaggi al passato finanziati su Kickstarter. Ma in quel periodo a cavallo fra anni Ottanta e Novanta ci sono anche altre sperimentazioni in qualche modo accostabili, come quel delirante mix di cyberpunk e horror vampiresco che risponde al nome di Bloodnet e che c’aveva un fascino enorme ma in cui non sono mai riuscito a entrare più di tanto, perché lo trovavo di una difficoltà immonda. Chissà cosa ne penserebbe il me di oggi, se mai ci riprovassi? Chissà, magari un giorno in Retroutcast. E mi viene in mente anche Neuromancer, l’adattamento del classico di William Gibson che non a caso arrivava dalla Interplay di Brian Fargo, uno che nel genere degli RPG due o tre cose le ha sapute dire, e mescolava un “volto” da punta e clicca a delle meccaniche e delle idee che lo avvicinavano a un RPG. Immagino ci sia anche altro, ma l’obiettivo di questo articolo non è compilare una cronistoria enciclopedica di queste contaminazioni, solo chiacchierarne un po’.

A quei tempi, questo tipo di operazione veniva spesso visto come fumo negli occhi, perché alla fin fine gli elementi da RPG non erano sufficientemente profondi da essere paragonabili alla “real thing”, perché le fasi di combattimento erano spesso appena abbozzate, finendo per diventare l’equivalente delle odiatissime sequenze arcade, e in generale perché quegli elementi aggiungevano poco di interessante e molto di fastidioso a ciò che realmente cercava un appassionato di punta e clicca. O almeno così mi ricordo io la percezione della cosa sulla stampa specializzata. Se lo chiedete a me, il problema era anche un po’ generazionale, nel senso che i tempi non erano maturi. Oggi abbiamo una visione molto più elastica di cosa debbano essere un RPG o un’avventura grafica. Possono esistere giochi di ruolo in cui i combattimenti sono visti come completamente opzionali (penso per esempio ai primi Fallout o a Planescape: Torment), così come altri in cui proprio non ci si mena (ciao, Disco Elysium). E di contro, la scena indie ha fatto evolvere le avventure punta e clicca in una varietà incredibile di stili e filoni.

Non credo sia un caso se proprio uno fra i grandi alfieri della rinascita del genere, Dave Gilbert, ha deciso qualche tempo fa di proporre un’avventura punta e clicca dichiaratamente ispirata ai giochi di ruolo BioWare. Gilbert ha venduto Unavowed come un gioco che da Mass Effect e Dragon Age pescava l’idea di un party, della possibilità di portare avanti storie personali e rapporti andando in giro per la base a chiacchierare coi compagni, del dover scegliere chi portarti dietro nelle singole missioni e avere per questo motivo accesso ad abilità differenti e, di conseguenza, a modi diversi per risolvere enigmi e situazioni. Di combattimenti non c’era nemmeno l’ombra, o quantomeno non di combattimenti intesi nella visione classica da RPG. Però c’era un tentativo di replicare e integrare in un genere diverso quello che per me rimane il cuore di un buon gioco di ruolo, ovvero il portarti a compiere scelte interessanti legate alla narrazione e soprattutto all’interpretazione di uno o più personaggi. Non era magari un esperimento riuscito fino in fondo, ma c’era parecchio di buono.

Francisco Gonzalez, invece non ha (o non mi sembra aver) minimamente venduto il suo Rosewater come un punta e clicca ispirato agli RPG, eppure io ci vedo dentro tanto, tantissimo di quel genere, e soprattutto di come quel genere è stato declinato nel nuovo millennio. Rosewater non è un seguito diretto ma è ambientato nello stesso mondo da frontiera ucronica visto in Lamplight City. Già in quel gioco Gonzalez sperimentava molto con una struttura aperta e libera, all’interno della quale il giocatore aveva la possibilità di prendere decisioni importanti e seguire strade diverse per arrivare (o meno) alla soluzione dei misteri, trovando comunque una conclusione soddisfacente. Ma giocando a Rosewater ho visto una struttura che, a grandi linee, mi è sembrata davvero molto, molto, molto simile a quella di un Mass Effect a caso.

Il primo atto ha un’impostazione narrativa da avventura grafica punta e clicca molto classica, interamente costruito com’è sul mettere assieme una squadra con cui affronteremo un viaggio, in pieno stile Monkey Island. Il taglio degli enigmi, però, è quello contemporaneo, quindi con un tentativo di mantenere la manipolazione degli oggetti nel reame della logica e una grossa componente di dialogo e investigazione. Inoltre, il gioco inizia subito a puntare molto sulla pluralità di approcci, con quasi sempre due o tre modi per risolvere una situazione, ma anche un’idea di scelte e conseguenze, con personaggi che si comportano in maniere diverse a seconda di cosa decidiamo di fare.

Ma è nel secondo atto che esplode la struttura che mi ha ricordato i Mass Effect e, in generale, una certa idea di gioco di ruolo. Questa parte centrale di Rosewater si focalizza su un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, durante il quale il giocatore ha modo di far evolvere i rapporti fra i personaggi, decidendo con chi portare avanti conversazioni durante i tragitti sul loro mezzo di trasporto ma anche in base a quali risposte decide di dare nei momenti di tensione. Il viaggio viene spesso interrotto da delle specie di “missioni”: alcune sono tappe obbligate e fondamentali, altre si manifestano a seconda di come ci siamo comportati con questo o quel personaggio e altre ancora vengono selezionate in maniera casuale. Un po’ come gli incontri casuali, volendo.

Rosewater è molto accattivante sul piano visivo, soprattutto con alcuni panorami davvero potenti.

Tutte queste divagazioni offrono circostanze molto varie, alcune drammatiche, altre di pura commedia, alcune di tensione e pericolo, altre di totale relax, permettendo quasi sempre diversi approcci. Inoltre, spesso le situazioni possono essere risolte in modi diversi e più o meno di successo. A seconda di come ci si comporta, ci saranno conseguenze anche molto significative nell’atto finale, in termini di rapporti fra i personaggi, azioni a disposizione e natura degli eventi narrativi. E poi c’è, appunto, l’atto finale, che torna ad essere ambientato in un luogo unico ma lo fa proponendo una grossa città dalla mappa esplorabile, di nuovo piena di opportunità e approcci possibili, in parte dettati anche da quali personaggi sono ancora al nostro fianco, a seconda di come ci si sia comportanti durante il secondo atto.

Ed è una struttura che mi ha restituito proprio quel sapore da CRPG, seppur ovviamente in una versione compatta, sintetizzata e infilata tra i confini di un genere diverso. In Rosewater c’è quell’idea di scelte e conseguenze, di dare grande importanza alle relazioni fra i personaggi e a come li interpretiamo, di fornire una struttura aperta e ricca di divagazioni che vanno poi ad arricchire il mosaico della narrazione principale. È un bell’approccio, declinato in maniera molto efficace, che mi ha reso l’esperienza gustosa e che penso possa anche spingere a una certa rigiocabilità. Lo sa o se lo aspetta per primo Gonzalez, che ha inserito un’opzione per una sorta di New Game + in cui si può decidere quali elementi opzionali “incontrare” rigiocando. Poi io non so se ci fosse veramente l’intenzione di contaminare i generi “importando” meccaniche da RPG o se sia semplicemente accaduto in una maniera organica figlia di suggestioni che Gonzalez si porta dentro, o che fluttuano nello zeitgeist. Ma in fondo è abbastanza irrilevante.

Dove invece Rosewater non mi ha convinto è negli equilibri narrativi. Un cliché dei giochi di ruolo sta nel fatto che non sempre, ma spesso, la storyline principale è piatta, banale, il solito pappone sul mondo da salvare, mentre la vera sostanza narrativa sta nelle missioni secondarie, spesso piccoli capolavori di inventiva, scrittura, potenza tematica. In Rosewater succede un po’ l’opposto: le varie missioni più o meno opzionali del secondo atto sanno essere divertenti e contengono idee di gioco anche molto interessanti, ma sul piano narrativo mi sono sembrate poco centrate, spesso limitate a divagazioni umoristiche e per nulla efficaci quando provano a fare qualcosa di più. E di contro ero incuriositissimo dal mistero principale e dalla grande avventura dei personaggi, dall’indagine che stavano portando avanti. Considerando che, un po’ come negli RPG, si passa decisamente più tempo dietro alle side quest che impegnati su quella principale, mi viene da dire che forse su questo aspetto ha ragione Bethesda.

Però, nonostante tutto, Rosewater, con me, ha funzionato in quello che alla fin fine è uno fra i tratti più irresistibili di un buon PRG: farti affezionare ai personaggi e ai rapporti fra di loro. Il classico finale che fa il punto sull’evoluzione delle cose e tratteggia il destino dei membri del party è proprio azzeccato e chiude bene un’avventura comunque interessante e riuscita. In attesa di altre sperimentazioni.

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