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E adesso... pubblicità! - Volume 1: il sesso esibito

E adesso... pubblicità! - Volume 1: il sesso esibito

Se c’è una cosa che, prima da lettore e ora da “interno”, ho capito, è che ai collaboratori di Outcast piace raccontare i fatti propri. Siamo vecchi veterani che condividono i loro aneddoti di guerra o noiosi nonni che mostrano le foto dei nipoti.

I miei studi e parte della seguente vita lavorativa hanno avuto a che fare con il marketing; ciò mi ha portato ad avere un occhio di riguardo per il modo in cui il videogioco viene promosso, con una predilizione per l’ambito cartaceo e televisivo a cavallo tra i ’90 e i ‘00, dove una certa ingenuità e pubblicità localizzate hanno dato vita a episodi di volta in volta divertenti, illuminanti, imbarazzanti e finanche sgradevoli.

Un solo articolo per scavare nel peggio e nello stravagante di un paio di decenni almeno sarebbe riduttivo. Pur se volessi condensare tutto in un’unica uscita, i social insegnano che è giusto avere la soglia di attenzione di un moscerino della frutta. Mollereste al terzo paragrafo e non vi biasimerei. I più svegli tra voi avranno intuito dalla titolazione “volume 1” che la scelta per questa discesa nel memorabile e deprecabile sia caduta sulla divisione in più uscite. Controversi, violenti, sessuali, bizzarri… questo excursus, se mi vorrete seguire, ci porterà a riesumare qualche cadavere, senza pomposità o piglio accademico.

Costume scosciato, tacchi a spillo (e mettiamoci pure il wrestling), voilà l’armamentario spicciolo del marketing anni ‘90 per irretire l’adolescente.

Videogiochi – adolescenti - sesso. Non c’è modo più facile di attirare un teenager. In realtà di attirare un uomo, a giudicare da quanta carne c’è in mostra su Instagram. Possiamo illuderci e fare i finti evoluti, ma gli istinti quelli sono. Questo i reparti marketing lo sapevano bene e se oggi quantomeno esiste un minimo di vergogna, negli anni ’80 e ’90 la mercificazione del corpo era considerata un valore.

Su questo solco si innestavano campagne a volte ammiccanti, spesso sessualmente esplicite, raramente di buon gusto. Nella terza categoria rientra a pieno titolo, per esempio, Davis Cup World Tour di Tengen. Pochi ricorderanno la copertina del gioco. Vi do un suggerimento, sta poco sopra al punto focale dell’immagine. Stessa tecnica adottata da Battlecruiser 3000 AD in una campagna marketing completamente sessualizzata, che giocava sul fatto che il titolo si fosse fatto attendere per sette anni, declinata in svariate versioni piene di procaci modelle il cui picco (si fa per dire) è “She Really Wants it”.

“Take advantage with” – tennis- modella senza mutande. Ci manca solo che qualcuno gridi “doppio fallo!” et voilà una bella scena da cinepanettone. I più colti vi diranno che è una citazione della famosa foto di Martin Elliot. Ma là non c’era il greve calembour.

Ci tengo ad essere onesto: io sono figlio di quell’epoca. Oggi, riguardando certe immagini, posso provare imbarazzo o mostrare disapprovazione. Tuttavia, contestualizzandole e ancora in parte contagiato da quel retaggio culturale, una parte di me non può che esserne attratto o tradire un sorrisino nei confronti di scelte provocatorie o demenziali. Se le pubblicità devono colpire, molte di queste raggiungevano l’obiettivo. È dunque con un misto di indulgenza assolutoria e accusatorio approccio moderno che vi suggerisco di accostarvi a quanto sarete esposti in questo articolo e nei successivi.

Prima di addentrarci nella lussuria, è doveroso sottolineare come il videogioco albergasse, fino alla fine degli anni ’80, in due anime diverse: gli arcade e la fruizione casalinga. Pur trattandosi di esperienze tutto sommato simili in termini di meccaniche (si parlava pur sempre di titoli molto immediati) il pubblico a cui si rivolgevano era solo parzialmente sovrapponibile. Nel marketing il target delle campagne è spesso il responsabile dell’acquisto, in particolare quando si tratta di prodotti dall’esborso rilevante. È corretto stimolare l’interesse del fruitore finale, ma si deve rassicurare chi ha in mano il portafoglio. In parole povere, la merendina cioccolatosa attira il bambino, ma la pubblicità cercherà di tranquillizzare i genitori sulle proprietà nutritive. Il medesimo approccio coinvolgeva i videogame. Le sale giochi erano il luogo degli adolescenti e dei ventenni, un marketing più trasgressivo e aspirazionale era giustificabile e anzi auspicabile per donare un’aura di desiderabilità. In casa gli equilibri erano differenti, come differente era spesso anche il mezzo (carta stampata/volantini vs. spot televisivi), anch’esso un grande differenziatore nell’approccio comunicativo. La risultante era una pubblicità delle console che sul piccolo schermo era esplicativa, didascalica e ambientata in un rinfrancante nido famigliare mentre, come vedremo, nel caso delle macchine a gettoni prevedeva modulazioni più vicine al target group del giovane maschio.

Torneremo su queste differenze e sull’evoluzione del marketing nei prossimi articoli. Per ora cerchiamo di procedere con metodo, raggruppando in macroinsiemi il sessismo promozionale, non solo di quegli anni ma di tutto lo spettro che copre fino ai primi vagiti del nuovo millennio.

La branca più semplicistica nella tecnica di vendita tramite il sesso è quella di appiccicare una avvenente ragazza più o (spesso) meno vestita a fianco del proprio prodotto. Non è un’invenzione del videogioco: la sinuosità femminile è da sempre una calamita che fa guardare con estremo interesse, per dire, quello pneumatico col battistrada largo. Due minuti dopo che si è finito di passare ai raggi X la modella.

Il mondo dell’auto non difetta di esempi illuminanti.

A partire dagli anni ’70, con Computer Space e la sua bionda in camicia da notte, è stata una gara nel levare tessuto o quantomeno a utilizzare i corpi femminili per attrarre il sesso opposto. Alcune di queste foto non sono effettivamente nulla di che, soprattutto per la mentalità dell’epoca (alcune sono quasi comiche. Chissà cosa aveva in testa chi ha proposto la monacale impiegata per promuovere Quantum). È innegabile, però, che ci siano episodi che si spingono decisamente oltre e che in generale tradiscano l’intento di vendere un prodotto affiancandogli quello che è, a conti fatti, purtroppo considerato come nient’altro che un oggetto scenico. Se l’utilizzo di un corpo femminile in Fonz o Astro Fighter non crea alcuno scandalo, al di là delle implicazioni etiche di cui sopra, esempi come Tank Battalion o Pac-Man, tra i tanti, fanno sollevare un sopracciglio (e non solo).

È da notare come, in questo periodo, utilizzare un’immagine “esterna” al gioco fosse una necessità: la resa grafica era troppo poco accattivante per destare interesse una volta riportata su carta. Gli stessi cabinati si presentavano, nel loro chassis, ricchi di interpretazioni fantasiose dell’iconografia del videogioco che volevano rappresentare, trasformando in personaggi antropomorfi e donando corpo a quei pochi pixel, veicolando dunque un mondo che il giocatore avrebbe poi traslato inconsciamente sullo schermo. Il perché non le si utilizzassero anche per la promozione sulle riviste è una giusta obiezione. In realtà lo si faceva. È che a noi sono rimaste nella retina altre immagini.

Ciò che indubbiamente non sfugge è quanto questo immaginario libidinoso sia fuori contesto, totalmente slegato da quello che dovrebbe promuovere. Forse, in un flebile sforzo per rimettere a fuoco la promozione, si iniziò a collegare le pubblicità ad una rappresentazione del mondo di gioco, oscillando tra i pigri tentativi di modelle vestite più o meno a tema, come in Konami GT, ed esemplari con un minimo di scenografia come in Contra. Roba talmente primordiale che pare di tracciare l’evoluzione della pittura rupestre ma, che ci crediate o no, questi spot furono già un passo avanti.

Se questi primi esempi sono indiscutibilmente indirizzati ad un pubblico al testosterone, i reparti marketing non mancano, già in quegli anni, di registrare uno sbilanciamento tra i generi nella fruizione dei coin-op. È sotto questa spinta che nascono poster con il chiaro intento di attirare l’attenzione maschile e al contempo sdoganare la sala giochi anche presso il pubblico femminile. È buffo però rilevare come tali tentativi si sviluppino secondo un canone di coppia ricorsivo, generando un sotto trend a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. La posa è subliminalmente sempre la stessa: lui dietro e lei, leggermente piegata, davanti. In alcuni casi specifici, tuttavia, per ingenuità o per precisa volontà, l’atteggiamento pare implicare un approccio penetratorio (manca solo Giovanni che urla “Sotomayor!”). Vederli in carrellata non solo chiarisce la loro serialità e l’approccio pudicamente sessuale, ma restituisce un ridicolo effetto slideshow, simile agli scarabocchi ai margini delle pagine dei quaderni che si facevano scorrere col pollice per dare l’impressione di movimento.

Col passare degli anni, i creativi hanno quantomeno provato a guadagnarsi il pane. Sempre usando centimetri di pelle, tuttavia inseguendo modalità meno trite, pur se ancora lontane da un’inventiva degna di tale nome. Un esempio ne è la pubblicità del Saturn, in cui si allude alla maggior attrattiva della grafica del 32-bit Sega rispetto allo sfondo sexy dell’inserzione; o di Gex 3 col geco che funge da reggiseno per la procace Marliece Andrada di Baywatch, con la scusa di donare al protagonista un tono più irriverente. Non esattamente da Leone d’oro alla creatività, ma è un timido passo avanti. In tutto questo profluvio di sinuosità è doveroso segnalare l’eccezione alla regola, nella totemica fisicità dell’italico Rocco Siffredi, che quantomeno cercava di bilanciare un po’ la presenza femminile. La pubblicità fu utilizzata da Sega/Acclaim solo in Francia (Sega negli anni ’90 e nei primi ‘00 giocava in un campionato tutto suo, ci torneremo). Strano che nessuno abbia pensato di riproporre questo cartellone anche alle nostre latitudini, la commistione tra il porno attore e il marchio nipponico avrebbe servito un doppio senso non trascurabile.

Ho cercato fin qui di tracciare una linea temporale nell’uso del corpo femminile. Non è difficile scorgere dei trend ed è abbastanza assodato che l’ultima decina di anni abbia visto un cospicuo diradarsi del maschilismo esibito. Fino al 2017 circa, però, momento storico della nascita del movimento Mee Too, qualche tetta o culo filtava ancora tra le maglie del buon gusto, per un tocco di quel marketing delicato e cerebrale che piace tanto a noi ex-giovani. Immagini che non ci provano nemmeno a trovare un gancio con quel che dovrebbero pubblicizzare, andando a mirare dritto al secondo cervello maschile. Dico, guardate le immagini qui sotto, utilizzate per promuovere Worms World Party, e… sì, ma ora tornate qui, per cortesia. Dicevo, guardate le immagini pubblicitarie di Worms e…. e daje su! Ecco, quelle lì, potete pure gradirle ma quale collegamento hanno con il titolo in questione? E dire che avevano pure trovato un bel gioco di parole per annunciare che l’attesa per fruirlo su console era finita (dopo un periodo iniziale in cui era stato appannaggio esclusivo del PC). Ugualmente poco comprensibili sono le paginate di Gauntlet Legends, Bloody Roar e compagnia cantante. Un taglio da simposio sulle filosofie tedesche tra ‘700 e ‘800 ripreso anche dalla promozione di BloodRayne 2, che esplorava l’essere umano partendo dall’estetica delle rotondità. Filologicamente seguito da Soul Calibur V, che faceva suo l’insegnamento dell’opera di Terminal Reality copiandone 1:1 l’ardito messaggio della bellezza del doppio. Perlomeno le coppie rappresentate appartenevano alle protagoniste del gioco, nel loro vestiario originale. Magra consolazione spazzata via dal constatare che Soul Calibur V facesse ricorso ad un marketing così avanzato ancora nell’anno domini 2012. Roba da far perdere fiducia nel progresso.

Se avete notato dei grandi assenti, da Leisure Suit Larry a Samantha Fox Strip Poker, passando per le zozzerie svedesi per Atari 2600 e senza manco toccare tutto il sottobosco di zizzone e gonne corte degli hentai giapponesi, è perché il marketing sessualizzato ha in questi casi una ragione d’essere. D’altra parte, mica scomodi Dacia Maraini se devi promuovere un vibratore. Ho deciso tuttavia di citare BMX XXX semplicemente quale testimonianza e portabandiera di quei prodotti che sfruttano la pruriginosità in maniera impropria fuori e dentro al videogioco. Riuscendo nel difficile compito di risultare asincroni sia nel giocato sia nella promozione, eppure unendole entrambe in continuum che stranamente, alla fine, trova il suo senso nell’essere semplicemente becero. La coerenza dell’incoerenza, insomma.

E per oggi basta così, che lo so che prima di leggere sbirciate quanto è lungo l’articolo per vedere se ne valga la pena. Quindi, con la mano libera, vi lascio scrollare ancora una volta le immagini di questa pagina e vi dò appuntamento al prossimo capitolo, dove vi inviterò ad esplorare con me doppi sensi, allusioni e momenti imbarazzanti.

Uollano, uollano, uollano. Vi saluto con l’altra mano
Bonanza Bros., un heist-movie a 16 bit

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