Sotto un sole di silicio a supplicare dive di bit di alzare la palla come si deve…
Un po’ mi vergogno ad ammetterlo, ma l’ultimo gioco che ho acquistato per PlayStation Vita è stato Dead Or Alive Xtreme Beach Volleyball 3 Venus. L’ho trovato in offerta sul sito giapponese dove solitamente acquisto i miei modellini di super robot. Che detto così non si capisce cosa sia più imbarazzante… La verità è che non ricordo più nemmeno se c’ho mai giocato. Sicuramente non in pubblico. E allora perché mai l’ho comprato? Ma perché amo la pallavolo, no? OK, sarei meschino se dicessi che il fan service non mi interessa: il mio GOTY 2024 è stato pur sempre Stellar Blade e dubito che avrebbe suscitato la stessa curiosità iniziale se, al posto della graziosa EVE, il protagonista fosse stato il solito tipo tosto nerboruto. Probabilmente per lo stesso motivo, nel 2017, avendo la possibilità di giocare nello stesso momento a Horizon Zero Dawn o The Legend of Zelda Breath of the Wild, ho finito per platinare NieR: Automata… Che ancora oggi ritengo il mio videogioco da isola deserta, insieme a Tetris e Wordle. Altro che DOAX…
Poi è arrivato il DLC crossover che ha messo d’accordo tutti.
Ma un conto è parlare di fan service, tipo la scollatura di Tina Williams quando si avvinghia all’avversario in una presa, e un conto è osservare la stessa creatura virtuale che fa le moine in costume da bagno rotolandosi sulla sabbia. Il punto, per il vecchio porco maschilista che alberga in me (ma condivide la gabbia con una super massaia premurosa che ha sempre l’ultima parola), è proprio qui: il fan service è interessante solo se è un effetto collaterale di tutto il pacchetto, non se è l’ingrediente principale. Sbirciare è eccitante, l’esibizione è monotona. Ma devo ammettere che ho capito cosa fosse realmente DOAX solo qualche giorno fa, quando ho visto l’annuncio dell’ultimo capitolo per PS5. Mi sono accorto subito che, nel titolo, per altro lunghissimo, Venus Vacation Prism: Dead or Alive Xtreme… mancava un pezzo fondamentale: “beach volleyball”. Quindi mi sono guardato qualche video di gameplay (no, non sono corso a prenotarlo) e ho scoperto che la pallavolo da spiaggia non mancava solo dal titolo ma era stata proprio eradicata dall’intera esperienza di gioco.
E allora mi è tornato in mente che non ci avevo mai capito nulla fin dall’inizio. Un inizio che, forse, merita di essere raccontato. No, non è di quella volta che ho visto DOA2 in un negozio di videogiochi a Parma… Qui siamo sempre nei primi anni 2000 ma il contesto, fortunato te, è un altro. A quei tempi ero su Xbox Magazine Ufficiale, e Microsoft mi aveva invitato a un esclusivo press-tour a Tokyo per mostrare quanto felici fossero i developer giapponesi della nuova console. Mi avevano promesso un’intervista con Tomonobu Itagaki, leggendario leader di Team Ninja, per un nuovo Dead or Alive. Wow, ero su di giri. Ero proprio gasatissimo: se riuscivo a tenere alta la bandiera di Xbox nella console war era solo per merito di Dead Or Alive 3 (dovevo farla, la console war, per contratto. Mi era anche stato proibito giocare con la PlayStation 2. Giuro. Ho dovuto firmare). La cosa che mi colpì subito è che la sala riunioni di Tecmo sembrava uscita da un film anni ’70, era tutto di un’altra epoca, conservato molto bene, autentico. Non era una scelta stilistica. Di sicuro contrastava con le mie aspettative. Ma la vera sorpresa arrivò quando Itagaki, che fece un ingresso tipo rockstar, ci presentò in esclusiva non il capitolo 4 del suo picchiaduro ma un curioso gioco di beach volley. O almeno così ci era stato rivelato dal traduttore al momento. In realtà, il game director non si sbilanciò sui dettagli agonistici della disciplina. Di questo parlò il responsabile marketing di Xbox che ci accompagnava. Itagaki si soffermò piuttosto sulla cura riservata all’emotività dei personaggi e alla necessità di curare le relazioni interpersonali, studiando preferenze e abitudini per riuscire a rendere le ragazze più “aperte” nei nostri confronti. Dove aperte voleva dire disposte a indossare i costumi sempre più striminziti che il giocatore poteva far recapitare in camera.
OK…
Lì per lì non ci feci particolarmente caso, mi sembrava solo un gioco bizzarro con una forte connotazione sexy, ma pensavo che il fulcro fosse davvero la pallavolo. Se devi coccolare la tua partner è solo per farla giocare meglio. Tuttavia, non riuscivo a capire perché dovessi farle dei regali, osservarla in piscina o sulla spiaggia, accompagnarla al casinò a giocare a carte, e via dicendo. E, a dirla tutta, il beach volley, per quanto ben fatto, non mi sembrava poi così profondo, a lungo andare. E sì, vedere le mie lottatrici preferite prendere il sole, in micro bikini, un po’ mi infastidiva (ecco lì la massaia). Se tutto è esibito, non c’è nulla da sbirciare. Senza considerare il loop di gioco, tremendamente monotono: prima di poter fare una partita a pallavolo dovevi sorbirti introduzioni in piscina, passeggiate sulla spiaggia, notti a un tavolo di black jack… E tutto questo per poter comprare un ninnolo per la tua partner, sperando che cominciasse a seguire la palla invece di guardare dall’altra parte mentre le avversarie ti umiliavano sottorete.
Il gioco ha avuto abbastanza successo in occidente da garantirgli una seconda uscita, in cui veniva aggiunto anche il mini game delle moto d’acqua, ma il rapporto tra quick timer event a bordo piscina, serate al casinò, appuntamenti in spiaggia e partite a beach volley rimaneva ancora fin troppo sbilanciato per dare vita a una struttura di gioco avvincente. Doveva pur sempre rappresentare una vacanza in un’isola tropicale, o no? Morale della favola, addio DOAX, è stato bello per i primi giorni, ma sole e spiagge non fanno per me. E mi dà pure fastidio rotolare nella sabbia quando sudo. Solo dopo aver visto il gameplay di Venus Wathever ho realizzato finalmente che la pallavolo era stata messa lì per compiacere Microsoft, così come le gare in moto d’acqua e forse pure i giochi con le carte. Perché DOAX è sempre stato, in fin dei conti, più di qualsiasi altra cosa, un simulatore fotografico di waifu. BAM! Con un pubblico di appassionati soprattutto orientale, Team Ninja non ne fa più mistero. La pallavolo era, in fin dei conti, un extra di lusso, un minigame come gli altri, aggiunto solo per far felice l’americano che ci metteva i soldi.
E così ho anche capito perché, nonostante l’amore per la saga principale, non sia mai riuscito ad appassionarmi a DOAX, nonostante il beach volley… Per onor di cronaca va detto che spin-off come questo non hanno giovato alla fama del brand principale tra i picchiaduristi. Quelli con lo stick arcade hanno sempre trattato con leggerezza DOA proprio a causa del fan service (come se Tekken non ne avesse). Nonostante gli sforzi, non sono mai riuscito a convincere la mia cerchia che il gioco ha sempre avuto un sistema di combattimento semplice ma profondo e una velocità da cardiopalma. Forse non volevano giocare con me perché ero troppo forte.
Purtroppo, quando Team Ninja ha ridotto i sobbalzamenti e messo una tuta monacale a Kasumi, se ne sono andati anche i feticisti di vecchia data. Ma questa è un’altra storia. E così, mentre aspetto un DOA7 da giocare contro la CPU, non ho altro trastullo che ricordare quelle vacanze a Zack Island, in cui pensavo di dover vincere a suon di schiacciate quando in realtà broccolare era il vero motivo del viaggio. Errori di gioventù.