Quanto ti dobbiamo, Rebecca...
Per alcune persone sembra davvero che la vita ce l’abbia personalmente con loro. Non basta un’infanzia difficile, una vita intera da pioniera sia nel mondo dell’industria videoludica sia nella comunità LGBTQ, perché poi ti piomba addosso un male che nel giro di qualche mese, e con l’aiuto del fantastico sistema sanitario americano, ti porta via e tanti saluti. Ho scoperto della scomparsa di Rebecca Heineman per caso, su Reddit, una mattina sul bus mentre andavo al lavoro, e sarà stato anche il periodo difficile e il tempo uggioso ma mi son ritrovato a dover poi spiegare in ufficio perché avevo gli occhi lucidi e il naso rosso. Rebecca era una delle persone che ammiravo di più nel panorama dello sviluppo dei videogiochi, fatto spesso di palloni gonfiati senza umiltà né percezione di sé.
Ho avuto la fortuna di poterla incontrare di persona alla GDC del 2024, mentre si aggirava attorno ad alcuni stand allestiti a mò di mostra da qualche parte nel padiglione espositivo, se non ricordo male, proprio vicino a un’esposizione di illustrazioni originali della moglie Jennell Jaquays, altrettanto leggendaria figura del mondo del fantastico, scomparsa solo qualche mese prima. Poi uno dice che alle volte il fato si accanisce... Non mi era sembrato il caso di disturbarla in quel momento, nonostante il pensiero mi fosse balenato in mente, ma passandole accanto ci siamo comunque scambiati un sorriso che valeva quanto e più di un qualsiasi imbarazzante saluto da parte mia.
Pochi lo ricordano ma Rebecca è stata la prima campionessa ufficiale della storia del mondo dei videogiochi, quando vinse nel 1980 il primo torneo ufficiale organizzato da Atari su Space Invaders per Atari 2600, il tutto mentre scappava di casa da una situazione familiare che difficile è dire poco. Racconta molto della sua infanzia e della sua vita in generale in questo podcast che fa accapponare la pelle. Lo userò come guida nel corso di questo articolo, insieme alla grande mole di informazioni e racconti che ha lasciato in giro per la rete. Se non vi va di ascoltare il podcast per intero, vi basti sapere che la sua vita parte già in salita. Genitori che si sposano per coprire una gravidanza indesiderata, un padre che non è il padre biologico e che la tratta come manovalanza domestica, non come figlia. Come raccontò la stessa Rebecca in diverse interviste, tra cui il podcast Corecursive, lei è quella che sparecchia, lava i piatti, serve la cena in piedi mentre gli altri mangiano e spesso non ha nemmeno un piatto per sé. Se osa toccare gli avanzi, sono botte. Botte regolari, urla, porte che si aprono di colpo la notte con un uomo ubriaco dall’altra parte. È da lì che nasce l’ossessione per il cibo, il fatto che da adulta si ritrovi a infilarsi hamburger nei cassetti dell’ufficio perché il suo cervello è ancora convinto che domani potrebbe non mangiare.
A quindici anni decide che basta così: un giorno va a scuola e semplicemente non torna più a casa. Nessuno denuncia la scomparsa, nessuno la cerca. Per mesi vive dietro al cassonetto di un supermercato, dormendo letteralmente nell’immondizia quando piove, arrangiandosi con lavoretti sottopagati in un grande magazzino, dove si presenta dicendo di avere diciotto anni, tanto nessuno le controlla i documenti. Da quella sopravvivenza un po’ randagia, la sua traiettoria incrocia le sale giochi, le schede logiche da riparare, l’Atari 2600 e un Apple II su cui impara da sola il linguaggio macchina del processore 6502, smontando e rimontando giochi a forza di prove, errori e notti in bianco.
Praticamente un lan party ante-litteram.
Da lì in poi parte la leggenda, ma non nel senso epico che ti aspetteresti. Rebecca arriva al famoso torneo di Space Invaders quasi per caso, convinta di non avere nessuna chance, e invece prima vince la tappa di Los Angeles, poi vola a New York per le finali nazionali. Ha sedici/diciassette anni, è da sola perché Atari si è scordata che i minorenni di solito si portano appresso dei genitori, e si ritrova catapultata davanti alle telecamere di CNN, giornalisti, flash e tutto il circo mediatico che per l’epoca era una cosa mai vista. E vince anche lì. È la prima campionessa nazionale di videogiochi degli Stati Uniti, in pratica il prototipo inconsapevole dei tanto celebrati giocatori di e-sport, quando la parola e-sport non esisteva ancora.
Quel titolo le apre un varco in questo mondo fantastico. La chiamano per scrivere guide e consigli su come battere i videogiochi per riviste e libri, viene contattata da gente del settore e lei butta lì con innocenza che ha “smanettato” con il codice dell’Atari 2600 per capire come funzionino i giochi. Qualcuno finalmente ha la brillante idea di presentarne il talento ad Avalon Hill, casa produttrice di giochi da tavolo che si stava buttando nel mondo dei videogiochi. È solo una ragazzina che non ha finito il liceo ma la assumono al telefono e le pagano il biglietto aereo per trasferirsi sulla costa opposta. A sedici anni si ritrova programmatrice stipendiata, scrive manuali interni per altri sviluppatori, mette in piedi un motore per i giochi di tutta l’azienda e firma i primi titoli, per esempio London Blitz.
Quando quell’avventura finisce, torna in California, lavora per Boone Corporation e impara a programmare praticamente qualsiasi cosa le capiti sotto mano, dal Commodore 64 all’Apple II, dal VIC 20 al PC IBM. Poi, insieme a Brian Fargo e altri tre pazzi scatenati, fonda Interplay. Sono tutti troppo giovani perfino per comprarsi da bere per festeggiare, ma da quel buco di ufficio usciranno alcuni dei nomi che hanno definito il gioco di ruolo occidentale su computer.
Pare na cosa così banale inserire personaggi femminili, e invece…
A Interplay Rebecca lavora a Wasteland (progenitore di Fallout), alle prime iterazioni di The Bard’s Tale, a un sacco di port complicatissimi in tempi in cui non esistevano motori multipiattaforma né documentazione decente. Ma soprattutto firma come game designer The Bard’s Tale III, che è il suo gioco. Motore, sistemi, interfaccia, audio, buona parte del codice, tutto suo. E già nel 1988 si prende la briga di fare una cosa che il settore avrebbe impiegato decenni a trattare come “normale”: aggiunge personaggi femminili giocabili e un sistema di pronomi che gestisce più generi, dimostrando che non è una questione di “manca la tecnologia” o di costi impossibili ma semplicemente di volontà.
Nel frattempo diventa “Burger Becky”, soprannome che nasce sia dalle voci di corridoio sui famosi hamburger nascosti nei cassetti, sia da un rapporto col cibo segnato per sempre dall’infanzia. E qui c’è un altro aspetto molto bello di Rebecca: invece di rimuovere quel passato, se lo porta dietro e lo trasforma in identità, in autoironia, in aneddoti da raccontare a podcast e conferenze.
Con il crescere di Interplay, che arriva a centinaia di dipendenti, Rebecca si accorge che il lavoro da catena di montaggio dei videogiochi non è più quello che vuole. È più felice in team piccoli dove può mettere le mani su tutto, sia il codice che il design. Lascia la compagnia e fonda prima Logicware, poi Contraband Entertainment. Fa quello che le riesce meglio: giochi originali, ma soprattutto port impossibili su piattaforme improbabili, dal Mac alle console dimenticate dal marketing. Nel curriculum finiscono tra le altre cose versioni Mac di titoli come Aliens vs Predator, Baldur’s Gate II e Heroes of Might and Magic IV, oltre a raccolte come Activision Anthology.
Nel mezzo ci sono i lavori da consulente occulta: ottimizzazioni di motori per Electronic Arts e Ubisoft, formazione tecnica sui kit di sviluppo Xbox 360 per i team interni Microsoft, contributi a basso livello al kernel di PSP e PlayStation 4 per Sony, esperimenti con Kinect, persino roba fuori dal mondo dei videogiochi, come l’architettura software per la finanza e il lavoro su auto a guida autonoma. Il tutto raccontato sempre con quel tono da “sì, l’ho fatto, che c’è di strano”, mentre qualsiasi altro essere umano ci si costruirebbe una carriera di conferenze sopra.
E poi c’è la storia di Doom su 3DO, che è una specie di horror-comedy lavorativa. Come racconta la stessa Rebecca in diverse interviste, tra cui il podcast Corecursive citato prima, le arriva questo progetto che sulla carta è già finito al novanta per cento, mancano solo “un paio di armi nuove” e un po’ di rifinitura. Chiede il codice sorgente, si sente rispondere che tanto non serve, è quasi finito. Quando finalmente Art Data, il publisher, le manda qualcosa, è semplicemente il CD della versione PC di Doom, compilata e chiusa, per una macchina completamente diversa. Il livello di incompetenza manageriale è tale che il capo è convinto che se il gioco sta su un CD, allora è “quasi fatto” pure per 3DO, perché anche 3DO ha un lettore CD.
La versione 3DO avrebbe dovuto integrare scene in FMV girate in green screen che però non hanno mai visto la luce del sole. Cosa ci siamo persi…
Rebecca a quel punto avrebbe il diritto di mandare tutti affancù, invece chiede il raddoppio del proprio compenso e si mette a lavorare. Contatta id Software, ottiene la versione Jaguar di Doom, più compatta e adatta alle memorie ridicole delle console dell’epoca, e porta a casa un port praticamente completo in una manciata di settimane, con un budget ridicolo e un’ansia assurda da uscita natalizia. Non ha nemmeno tempo di inserire il codice per riprodurre la musica: sfrutta il supporto del 3DO per i file audio in formato CD e il fatto che il capo di Art Data sia un musicista amatoriale per fargli registrare buona parte della colonna sonora con la sua band nel suo garage. Randy Scott, il musicista/genio che credeva che il port di Doom su 3DO fosse lavoro facile, è ora in galera per molestie di qualche tipo, ma questa è un’altra storia. Il risultato finale non è certo il Doom definitivo, e lei non ne era particolarmente orgogliosa, ma il fatto che esista e funzioni è un miracolo di puro mestiere e testardaggine.
Nel 2013 fonda Olde Sküül insieme a Jennell Jaquays e altre veterane, studio indipendente ma anche specie di rifugio creativo per chi quei decenni di storia li ha fatti e non vuole vederli evaporare. Da lì arrivano progetti come Battle Chess: Game of Kings, ma soprattutto un lavoro silenzioso di preservazione, archiviazione, difesa della memoria videoludica. È grazie alle sue manie di archiviazione se oggi sappiamo che il codice sorgente di Fallout e Fallout 2 non è andato perduto come si pensava: quando tutti buttavano CD e nastri, lei faceva copie su copie, per principio, perché qualcuno doveva pur prendersi la responsabilità di non perdere tutto.
Accanto alla parte tecnica, c’è quella umana e politica. Rebecca racconta spesso che i videogiochi le hanno permesso di giocare nei panni di una femmina molto prima di potersi presentare al mondo come donna. La transizione arriva nei primi anni Duemila, accompagnata dal cambio di nome e dal fatto di smettere di dover scegliere tra sopravvivere ed essere se stessa. Nel frattempo diventa una figura apertamente queer in un settore che ci mette sempre un tempo infinito a normalizzare qualsiasi cosa sia anche solo vagamente diversa dalla foto di gruppo dei primi anni Novanta. Lavora in Amazon come figura tecnica ma anche come responsabile per le persone trans all’interno del gruppo LGBTQ aziendale, entra nel board di GLAAD, diventa punto di riferimento per chiunque stia cercando di capire come vivere apertamente una identità non conforme dentro e fuori il mondo tecnologico.
La cerimonia di premiazione dei Gayming Awards 2025 è una delle ultime uscite pubbliche di Rebecca prima della malattia.
Negli ultimi anni arriva anche il riconoscimento più esplicito: nel 2017 viene inserita nella International Video Game Hall of Fame, nel 2025 riceve il Gayming Icon Award come figura storica della comunità queer nel mondo dei videogiochi. Per una che ha passato la vita a sentirsi dire che ragazze come lei non esistono, è il coronamento di una carriera.
Nel privato, la sua vita resta intrecciata con quella di un’altra figura gigantesca per chiunque ami i mondi fantastici: Jennell Jaquays, illustratrice e game designer che ha letteralmente inventato il modo in cui immaginiamo i dungeon di Dungeons & Dragons, e che diventerà sua moglie. È un rapporto fatto di creatività condivisa e attivismo, che purtroppo si interrompe bruscamente quando Jennell muore nel 2024 per complicazioni legate alla sindrome di Guillain Barré. Rebecca ne resta devastata, ma continua a lavorare e a raccontare le sue storie alle conferenze, nei podcast, online.
Poi, nel 2025, la diagnosi. Adenocarcinoma aggressivo a polmoni e fegato. Già questo basterebbe da solo, ma siccome stiamo parlando degli Stati Uniti, la trama deve per forza includere anche la sottotrama “l’assicurazione copre solo una parte, arrangiati”. Così Rebecca, che ha fatto più per l’industria dei videogiochi di quanto molte aziende intere potranno mai vantarsi, è costretta ad aprire una raccolta fondi per pagarsi le cure, mentre i fan e i colleghi le lanciano tutto quello che possono. Raggiunge e supera in pochi giorni l’obiettivo, ma nel giro di un mese i medici le spiegano che non c’è più niente da fare. Lei aggiorna la pagina chiedendo che i soldi vengano usati per pagare un funerale “degno della mia Pixelbreaker”, la tastiera con cui ha scritto mezzo secolo di codice, e a preparare il suo “ingresso in scena” per ricongiungersi a Jennell. Fa ridere e piangere allo stesso tempo, come buona parte della sua storia.
Chissà se è quella, Pixelbreaker!
Muore il 17 novembre del 2025, a 62 anni. Nel giro di ore arrivano messaggi da mezzo mondo: colleghi di Interplay, sviluppatori di Obsidian cresciuti all’ombra dei suoi lavori, giornalisti, fan. Tutti a dire più o meno la stessa cosa, declinata in mille varianti: senza Rebecca il panorama dei videogiochi sarebbe stato più povero, meno strano e soprattutto meno nostro.
Quando penso a Rebecca Heineman, penso a tutto questo: alla ragazzina che mangiava gli avanzi di nascosto, alla campionessa di Space Invaders volata da sola a New York perché nessuno si era preso la briga di accompagnarla, alla programmatrice che ti faceva il port di Doom su un hardware ridicolo in dieci settimane, alla fondatrice di studi, alla donna trans che non solo ha trovato il proprio posto in un mondo ostile ma che ha speso la propria visibilità per aprire la strada ad altre persone come lei.
Nel nostro piccolo mondo di chiacchiere sui videogiochi, fatto spesso di annunci rumorosi, di direttori creativi che si autoproclamano geni incompresi e di aziende che usano la parola “passione” per mascherare lo sfruttamento, una figura come Rebecca è un promemoria del fatto che dietro a ogni schermata c’è qualcuno. Lei ha lottato più di molti, e ha dato più di tantissimi. Il minimo che possiamo fare è ricordarcelo ogni volta che infiliamo un vecchio gioco nel lettore o vediamo l’ennesimo port funzionare miracolosamente su una macchina improbabile o ancora ogni volta che sentiamo un nome come Interplay o Wasteland o The Bard’s Tale.
Non so se il settore dei videogiochi se lo meriti, un lascito del genere. So solo che ce l’ha, ed è lì, stampato in ogni RPG moderno e in ogni archivio di codici sorgente preservato per puro puntiglio ma soprattutto in ogni ragazzino o ragazzina, o chiunque altro, che fa partire un gioco per trovare, almeno per un attimo, un posto dove essere sé stessə.




