Autoanalisi Videoludica™, caso zero: Space Harrier
I videogiochi sono pietre nell’impetuoso torrente del nostro divenire. Restano là, ben piantati per quello che sono, immutabili nei loro contenuti. Il codice comincia sempre con un certo carattere e finisce sempre con un certo carattere. La musica è quella. La grafica è quella. Il gameplay e i sistemi di controllo sono quelli. Ogni videogioco è innanzitutto l’espressione iperuranica di se stesso. Naturalmente avrete la pulsione di non essere d’accordo con questo assunto. I giochi invecchiano. I giochi vengono esperiti su piattaforme diverse, con sistemi di controllo aggiornati, lontani dal loro contesto d’origine. È tutto vero, ma queste variabili stanno di fatto generando altre pietre, variazioni sul tema dell’originale che non sono l’originale. Fosse anche solo perché il fluire inesorabile del torrente fa sì che queste pietre siano molto più a valle, e se il tempo è spazio, lo spazio è Space Harrier. Sì, insomma, voglio dire, tagliamola corta: Space Harrier.
È il tema di questo testo. Questo testo è una pietra nell’impetuoso torrente del mio divenire. Un testo che guarda a monte, lungo quarant’anni di torrente, per vedere cosa succede a Space Harrier man mano che il tempo passa. Perché ogni anno, figuriamoci ogni decennio, cambia la nostra percezione di quella pietra lassù. Siamo più lontani. Abbiamo navigato in buone e cattive acque. Abbiamo balzato più o meno leggiadri da una pietra videoludica all’altra giù per il torrente. Alcune miliari, altre scivolose, altre che puzzavano proprio di merda. Tutto questo sbatterci nell’esperire e interpretare ci cambia costantemente. Ad ogni nuova considerazione, creiamo una nuova istanza di pietra Space Harrier, una specie di versione fantasmatica del gioco che racchiude parti dell’originale ibridate con la nostra percezione qui e ora, molto più a valle. Nemmeno nel nostro primissimo incontro con Space Harrier abbiamo conosciuto la sua immutabile natura iperuranica. È inconoscibile! Nemmeno il team che lo ha sviluppato, una frazione di secondo dopo averlo completato, poteva guardarlo con occhi neutri. Tsk, occhi neutri.
E come la fai lunga, dite. Mica è la Bibbia! È solo Space Harrier, il gioco più scemo dell’universo, probabilmente un filo indietro anche rispetto a Space Invaders in termini di profondità. Ma è proprio questa semplicità della pietra Space Harrier che rende disarmante e azzeccata la metafora. Se perfino quel gnucco di Space Harrier si presta a infinite interpretazioni e a slittamenti semantici in ogni suo aspetto, in ogni istante, figuriamoci il resto. Non vorrei sembrasse un problema, anzi, è una figata. Non ci si annoia mai, nemmeno volendo arroccarsi idealmente solo su videogame vecchi. Tu credi di “rigiocare i giochi dell’infanzia” e invece li stai riattualizzando e ricaricando di significati inaspettati, storti, nuovi, decisamente a valle proprio come te, che ti illudi di poter risalire anche solo per un attimo a monte, quando il turbinio delle acque, gli spruzzi e le tue risa, eccetera. Ed è invero un esercizio stimolante, quello di andare a vedere come la nostra percezione di un videogame cambia a seconda del tempo che scorre. Si tratta di un metodo facilmente applicabile a qualsiasi videogioco della vostra vita. Lo chiameremo Autoanalisi Videoludica™ che, anche fosse realmente registrabile come marchio, non ci farebbe fare un soldo, visto che ciascuno può farsela per i fattacci suoi. Per consulenze a pagamento, qualora vi avanzino soldi, scriveteci pure.
Pietra #0: Space Harrier nel 1985
Non pervenuto. Esce in dicembre in Giappone. Ma per me non esiste, è una non-pietra.
Non sono nemmeno sicurissimo di quali e quante sale giochi italiane disponessero di Space Harrier nell’arco di tutto il 1986.
Ecco come si presentava Space Harrier in sala giochi, sbattendo l’hardware idraulico sul tavolo.
Pietra #1: Space Harrier su Zzap italiano, ottobre 1986
In un ribaltamento tutt’altro che infrequente (leggi: abbastanza frequente) mi ritrovavo ad apprendere di un coin-op grazie alla sua conversione per home computer. Nel numero di ottobre 1986 dell’edizione italiana di Zzap! Gary Penn intervistava Chris Butler, programmatore che si era appena fatto un bel gruzzolo convertendo Commando su C64, il quale candidamente ammetteva di essere al lavoro proprio sulla conversione di Space Harrier. Gary Penn ridacchiava sotto i baffi e diceva cose tipo “Coosa? Elite ha un’aggiunta hardware speciale per mimare i movimenti idraulici dell’originale?” o “riempirai tutti i 64K con la grafica e non ti resterà spazio per il gioco” o “non riuscirai a mantenere la velocità dell’originale”. Ora: immaginate di avere dodici anni e non aver visto nemmeno in foto questo fantomatico Space Harrier e di capire, leggendo tra le righe, che dev’essere un gioco con un botto di grafica, velocissimo e pure con un hardware speciale. È chiaro che parte un importante durello videoludico mentale. E nemmeno ancora sapevo che era marcato SEGA, cosa che avrebbe… (lascio a voi corrivi e banali giuochi di parole in merito).
Quindi: ragazzino in confusione ormonale che si aggira per casa con una copia di Zzap! e le mani sudate, cercando di immaginarsi questo fantomatico Space Harrier. “Movimenti idraulici dell’originale”? Ma che è, un materasso ad acqua? La situazione era abbastanza simile a Leopardi ne L’infinito, solo che io, il guardo nascosto dalla siepe della mia ignoranza, non avevo nemmeno una volta prima potuto scorgere il panorama di Space Harrier. Ed erano quelli i momenti più belli della mia esistenza. Quando nulla sapevo, e a tentoni rotolavo fuori dalla caverna di Platone, bramoso di conoscenza. Due mesi più tardi, apparve su Zzap! una pagina di pubblicità di alcune conversioni Elite, tra cui anche Space Harrier. Al di là di errori che mi irritavano anche a dodici anni, tipo che Scooby Doo ovviamente non c’azzeccava niente nel quartetto e che CAPCON non si può leggere, c’era questa illustrazione incredibile - ovviamente di origine nipponica - su cui sbavavo violentemente, cercando di carpire più informazioni possibile nonostante la risoluzione della quadricromia fosse imbarazzante.
Si capisce subito che Space Harrier è la cosa più fregna di tutta la pagina.
Parlando a scuola di videogame con la solita cricca di infoiati stralunati, scoprii che Adriano della III C sapeva cosa fosse Space Harrier. Comprava riviste inglesi, lui. Era avanti. Mi portò un numero di C+VG del marzo 1986 con un succoso reportage sull’ATEI (Amusement Trades Exhibition International) dove, tra le varie chicche, presentavano nella stessa pagina Vs. Super Mario Bros e, per l’appunto, Space Harrier. Niente di che - la magniloquente schermata del titolo e un’altra immagine brutta e sfocata dove non si capiva nemmeno chi fosse l’avatar del giocatore. Però che grafica. E parlano di un cabinato dove ti siedi e si muove e ti sbatacchia allegramente. Tutto sempre a parole, senza aver idea dell’oggetto-gioco Space Harrier se non per violente mediazioni testuali. Ma questa era vita degna d’essere vissuta: otto ore di sonno, niente debiti e giochi sfuggenti, i più belli di tutti, perché non ancora giocati.
Ecco Gary Penn (sx) e Chris Butler (dx). Grazie a zzap.it cui abbiamo rubato le scansioni.
Pietra #2: Space Harrier recesito su Zzap!, febbraio 1987
Zzap! italiano recensisce Space Harrier [https://www.zzap.it/numero/9 pagina 44 e 45], e fa schifo. O meglio: sembra che per qualche ragione il gioco stia sul culo ai recensori. Ne parlano male, ma paradossalmente sembrano inferire, e infierire, che tutto sommato Chris Butler ha fatto un lavoro egregio, considerati i limiti del Commodore 64, e che il problema sia più che altro il gioco originale, bello e senz’anima, soprattutto privato del mobile idraulico. Sposai acriticamente questo approccio critico. Di più: mi costruii una strana narrazione per cui l’arcade di Space Harrier stesso, alla fin fine, doveva essere un’esperienza tutto fumo e niente arrosto. Sempre senza averlo mai giocato. Però oh, quelli di Zzap! sottintendevano che fosse, a livello di gameplay, tolte le campanelle e i fischietti audiovisuali, uno shooter perfino più rozzo di Space Invaders. Gyruss je spiccia casa. Si trattava di una scelta di campo. Ero forse un paninaro superficiale dei videogame? O piuttosto un giovane ma colto e raffinato esegeta del gameplay di qualità? Snobbai così tanto Space Harrier che manco provai ‘sta vituperata conversione Commodore. Nemmeno sulle cassettine pirata da edicola mi capitò di incrociarlo - dov’era noto con il nome farlocco, stupendo, di STAR TREK IV.
I giochi meno apprezzati da Zzap inglese finivano su dei sedicesimi in bianco e nero. Così, quando Zzap! italiano impaginava, c’era questa cosa bizzarra di pagine quadricromatiche con foto tristissime in bianco e nero.
Pietra #3: Space Harrier giocato a Londra, Coventry Street, Trocadero, luglio 1988
Giocai a Space Harrier arcade la prima volta nel 1988 a Londra, in quelle vacanze studio che usavano all’epoca e ora non so se si usano ancora, perché signora mia lei è pazza a mandare i figli in giro per il mondo che c’è la guerra e il wok. O forse è che siamo mediamente più poveri o meno privilegiati. Fatto sta che finalmente vedevo la bestia. Cavalcavo il serpente, come suggeriva Jim Morrison. Era potente? Sì. Era molto potente. Nonostante fossero passati un paio d’anni che, per l’evoluzione videoludica del tempo, significavano tipo dieci anni di adesso. Ma fa l’istess, nonostante avessi già goduto di Hang-On, Enduro Racer, Out Run e altre delizie SuperScaler, Space Harrier faceva la sua pazza figura. Perché era tutto fantasiosello, e perché alla fin fine il mobile idraulico ti sbatteva davvero continuamente.
Bah, era bello. Musicalmente potente. Ma non c’era niente da fare: ero un alfiere del pensiero critico Zzappiano, e pertanto non potevo certo lasciarmi andare ad un’esperienza così insostenibilmente leggera. Non ero pronto, per la leggerezza. Avevo quattordici anni e non avevo praticamente mai baciato una ragazza o quasi. Ero convinto che i miei genitori sarebbero morti da un momento all’altro. Ero come Kathleen Turner nella prima parte de All’inseguimento della pietra azzurra. Frigidaire. La sconcertante voluttà di Space Harrier mi era preclusa. O forse ero solo incazzato perché non avevo ben chiaro come funzionassero le monetine nei cabinati inglesi. Misi dentro un pound pensando boh forse mi dà il resto, invece un pound significava SETTE CREDITI e stacce, che nel caso di Space Harrier voleva dire una partita con ventun vite a farsi sballottare dal cabinato deqquà e dellà. Mi alzai fisicamente indebolito, andando a cercare qualcosa di sagace, bidimensionale e rassicurante tipo Bomb Jack.
Il London Trocadero è uno dei posti architettonicamente più incredibili dove io abbia mai videogiocato.
Pietra #4: Space Harrier giocato su Amiga, aprile 1990
Perché avevo un vicino di casa gentilissimo che mi passava la qualunque, e c’era anche il floppy di Space Harrier. La versione Amiga è particolarmente fastidiosa perché in foto dici anche “non è male” ma poi ci giochi e signore perché, cristo perché. Di tutte le cose che potevano togliere a Space Harrier, decisero di togliere l’adrenalina. Non solo l’incedere prospettico, ma perfino l’arrange del tema di Hiroshi Kawaguchi era diventato una sbobba lounge rallentata. Perfetto per rinforzare il mio bias sul gioco.
Pietra #5: Space Harrier giocato su SEGA Saturn giapponese, gennaio 1997
Per un bel po’ non pensai più a Space Harrier. Però una volta andai a una festa al liceo artistico e, giustamente, c’era un gruppuscolo di nerdacci che invece di ballare giocava col Saturn sulla TV del bidello. Ecco, rivedere Space Harrier in quel contesto fu potente. Sarà stata l’atmosfera psicotropa, ma fu il momento in cui cominciai a fare pace col gioco, ad allentare le difese, a godere del flusso e a lasciarmi trasportare. Non è un caso che tra il 1990 e il 1997 la mia consapevolezza del sesso fosse cambiata radicalmente, con tutto ciò che ne consegue. Ora potevo guardare nell’abisso e sorridere nel sentire quella voce amica scandire “Welcome to the fantasy zone!” L’arrivo degli emulatori (tra cui, prima di MAME, il System 16 EMU, già a fine 1996) fu un’ulteriore rassicurazione sulla riuscita della preservazione degli arcade, e questo cambiò il mood generale: non eravamo più al capezzale di memorie come lacrime nella pioggia, ma all’inizio di una renaissance arcade che non sarebbe mai finita - finché l’avessimo tenuta in vita noi della nostra generazione.
Pietra #6: Shenmue
Posso dirvi la verità? Non ho mai finito Shenmue. O forse sì ma non ne ho ricordo. Non importa: lo reputo una delle più emozionanti esperienze videoludiche che io abbia mai avuto. Iniziare a muovere i primi passi nel quartiere dopo la morte del padre, in un’atmosfera raccolta, fatta di piccoli gesti. Lo so, avrei dovuto investigare e cercare dei marinai e i cinesi e tuttecose, ma sai che c’è? Io volevo solo stare alla sala giochi di Dobuita e giocare un po’ a Hang-On, un po’ a Space Harrier. E poi andare a dormire a casa, curando il dolore della morte con un’accidia indulgente e consapevole. Che bella scatola cinese, imparare l’amore per Space Harrier impersonando un giocatore giapponese di Space Harrier, incidentalmente Ryo Hazuki.
Ryo, degno erede della figura archetipica del Principe Amleto, viene colto da un giustamente amletico dubbio.
Pietra #7: Planet Harriers, 2000 o 2001?
Uno spin-off di Space Harrier molto giusto per il fatto di esistere, molto sbagliato nel tradire le caratteristiche salienti della Fantasy Zone. Cioè, un’infermiera che vola sfruttando una siringona o un metallaro giappo con la sua chitarra non sono cose che mi aspetto da Space Harrier. Non era orribile come arcade, ma non si capiva a che pubblico volesse parlare. Di certo ho provato a farmelo piacere. E non ci sono riuscito più di tanto. A riprova che, nel frattempo, non solo il mio pregiudizio giovanile su Space Harrier si era dissolto, ma anzi, ormai ero più realista del re, se arrivavo a dichiarare Planet Harriers “non abbastanza nonostante tutti gli sforzi”. Un po’ la ragione per cui un feticista della serie di Parodius non può amare veramente Otomedius.
Non lo so Rick, a me Planet Harriers sembra una zozzeria, anche se tutti volevamo farcelo piacere perché ti prego SEGA non morire (immagine zanzata da http://www.hardcoregaming101.net/).
Pietra #8: 2006, SEGA Classics Collection esce in Italia su PS2
Nel 2006 la PlayStation 2 comincia a essere vecchiotta, ed è pertanto tempo di revival, collection, revival e collection come SEGA Classics Collection, che in realtà prende una manciata di classici e li sbatacchia viulentemente nel 3D povero della Play 2. Il risultato è composto da alti e bassi, ma c’è un problema di fondo: i soldi. Se tu rifai in 3D Space Harrier, non puoi realizzare una mezza poverata e sperare di farla franca. I giochi della SEGA Classics Collection erano in realtà remake budget usciti singolarmente qualche anno prima in Giappone. Se considerate che Space Harrier era, all’epoca della sua uscita, tra i più costosi coin-op mai sviluppati da SEGA, è chiaro che per farne un remake in 3D che funzioni devi spendere un sacco di soldi, non mirare a una release budget. Significa non aver capito l’altezza, la grandezza, la nobiltà della pixel art originale, il significato esistenziale della tecnologia SuperScaler. Al solito, il comparto che patisce meno è quello audio, ma per il resto ancora una volta mi ritrovai in posizioni reazionario-estremiste. Invero, totalmente legittime. Qualche anno dopo mi commossi nel vedere Street Fighter IV, che era quello che intendevo - al di là che non era numerato come un sequel, visivamente era la trasposizione in 3D di Street Fighter II e Super e Dash e turbi vari, ma fatta scucendo il grano.
Pietra #9: 3D Space Harrier effettivamente in 3D su 3DS, ed era il 2013
Arriva quel momento insperato in cui dopo anni di noia, di remake tiepidi e visioni sfocate ci si alza in piedi sul divano urlando: cazzosìcazzo. È un bel momento per un fan-di-qualsiasi-cosa se questo accade: non è scontato, ci sono fandom che restano per sempre scontenti perché la loro IP di riferimento non ne azzecca una manco a pagare oro. E invece arriva M2 e spacca tutto, addirittura rendendo vera l’antica promessa tradita, quello Space Harrier 3D su SEGA Master System che era soprattutto mal di testa, più che 3D. Non ha senso però continuare, perché tutto questo e molto di più l’ho già scritto proprio per Outcast all’epoca - se inspiegabilmente questo qui presente infinite text su Space Harrier non vi basta, cliccate sul link e fatela finita.
Pietra #10: Qui e ora
Rileggo quello che ho scritto. Una volta di più accetto di buon grado di aver fallito: non ho scritto come Carver, non sono stato sintetico, ho sbrodolato, ho mancato di coerenza, ma in un modo o nell’altro sono arrivato in fondo al torrente so far: sono tornato al presente. Questo balzellonar di sasso in sasso giù per i ricordi se non altro mi costringe ad accettarmi, a cogliere costanti e stravolgimenti man mano che la cangiante identità si trascina dall’alpha all’omega. Tsk. Carver. “Se fossi stato, ma non sono mai stato cosììì / Insomma dai, adesso sono quììììì” diceva qualcuno che decisamente non era Carver, ma alla fine ti segna quello che ti sei beccato da giovane, e io ho letto Carver troppo tardi. O non l’ho ancora capito? E Space Harrier? Alla fin fine l’ho colto o no? L’ho cavalcato, in tutti questi salti da un sasso all’altro ne ho colto per qualche frazione d’attimo l’essenza più profondamente leggera, quello sì. E non posso chiedere di più. Perché noi scrutiamo la realtà - anche quella creata dall’uomo - soprattutto alla ricerca di noi stessi, riflessi per pochi istanti negli schizzi d’acqua di ricordi scroscianti. Non importa che le acque siano azzurre, chiare, fresche, dolci: purché siano, e siano in movimento, e noi con esse, fino al momento in cui sfoceremo nel mare e tutto questo, mi permetto di sospettare, non avrà più chissà che importanza.
Il miglior hack di Space Harrier è Rumic Harrier su Sharp X68000 ma questo ci porterebbe lontano, tipo qua: https://youtu.be/fRk-GlYRY9Q




