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Una sola cosa non perdono a Xbox 360

Una sola cosa non perdono a Xbox 360

Lo ricordo lo scetticismo generale quando Microsoft annunciò la sua entrata nel mondo console. “La tecnologia è l’ambito che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”. Mi riecheggia ancora quel discorso di Bill Gates alla GDC del 2000, che annunciava l’avvento di Xbox. “Una scelta di campo” l’aveva definita.

C’era da capirli gli scettici, l’azienda di Redmond era vista come un temibile monopolista che si muoveva nel mondo della tecnologia cannibalizzando start up innovative per mantenere la propria posizione. Non a caso Antitrust (S.Y.N.A.P.S.E. - Pericolo in rete, in Italia) aveva nel cattivo un personaggio del tutto simile a Guglielmo Cancelli. Un tizio che rubava codice in giro per il mondo, nei modi peggiori possibili. Cosa avrebbe potuto fare una corporation del genere al mondo dei videogiochi? Rendersi imbarazzante, per esempio. Ma questo lo avremmo capito solo qualche lustro dopo.

Per qualche motivo io stavo dalla parte dei credenti, di quelli che vedevano in Xbox un segno positivo. Forse perché MS era stata coinvolta nel progetto Dreamcast e io ho sempre avuto un debole per gli underdog che non sono stati Ministri per la Gioventù. Forse perché significava avere un’altra console sul mercato e a me plastica e silicio eccitano quanto perizoma e autoreggenti. O magari perché ero orfano del triumvirato e volevo qualcuno che sostituisse Sega.

Sia come sia, quell’esperimento funzionò. Non come ritorno economico, forse, ma stabilì Xbox quale marchio rispettabile nel mercato. Un serio contendente che aveva coccolato i videogiocatori con titoli Sega quali Jet Set Radio Future, Crazy Taxi 3, Panzer Dragoon Orta e Outrun 2… E ancora le esclusive Halo, Steel Battalion, Project Gotham 2, Fable… mi fermo qui perché questo mese in realtà si parla del suo successore, quello che fece davvero il botto. Ma i semi furono piantati nella generazione precedente da un gruppo dirigenziale che di corporate aveva ben poco.

Una delle mosse che preoccuparono in quel periodo fu l’acquisizione di Rare. I fan Microsoft ci credevano duro, tutti gli altri avevano timori, vuoi per fanboysmo, vuoi per l’expertise che una tale software house avrebbe potuto portare alla console statunitense, potenzialmente minando l’egemonia nipponica. C’era poi chi, slegato da appartenenze a tifoserie, si chiedeva quanto, senza la guida di Kyoto, Rare avrebbe saputo far tesoro degli insegnamenti ricevuti. Erano quelli che avrebbero avuto ragione. Qualche indizio, d’altra parte, era già nel passato. Non tutto quello che sfornava Rare era di qualità cristallina. Mai brutto, tuttavia qualche Star Fox Adventures e Mickey Speedway USA era uscito pure a loro.

Xbox 360, una console con un cuore passionale quanto un RROD, fu una macchina speciale per tanti motivi, ma fu anche l’hardware che decretò la definitiva discesa di Rare nell’anonimato. Libera dai vincoli family oriented di Nintendo, prese una piega molto adolescenziale con Grabbed by the Ghoulies e la riproposizione di Conker, e confermò di mancare della direzione del suo storico publisher nell’assenza di mordente che caratterizzò Kameo e Perfect Dark Zero. È significativo, dunque, che sia stato proprio il fugace ritorno alla nintendosità a rappresentare il canto del cigno dei fratelli Stamper. Viva Piñata è un titolo al quale sono affezionato per molti motivi, ma è prima di tutto un gioco di qualità, come solo la Rare degli anni ’90 sapeva fare.

Lo comprai per mia figlia, pur se a me i giochi di giardinaggio e life-sim facciano scappare a gambe levate. Ma c’erano gli animali, sembrava pacioccoso il giusto e ancora credevo in chi da giovane mi aveva dato Jetpac.

In Viva Piñata convivono molte anime: è parte simulatore di giardinaggio e allevamento, parte collezionismo pokemonico e molto puzzle game. È un gioco nel quale placidamente riassestare un campo, coltivare piante e ortaggi per renderlo un bucolico habitat per gli allegri animaletti che lì si insedieranno. È qui che scattano le meccaniche puzzle, perché non tutte le specie possono convivere, necessitano di spazio e farle prosperare e ibridare richiede di scoprire determinate dinamiche.

Ci ho passato su più di 100 ore, con mia figlia in odor di elementari, nell’arco di un anno circa. Era un gioco perfetto anche per chi non sapeva leggere, con parlato chiaro, icone immediate e una paciosità dilagante. Sapeva essere compassato e frenetico, rilassante e sfidante. Era un meccanismo pressoché perfetto e un terreno sul quale dialogare con lei e ritrovarci. Ne conservo dei ricordi indelebili, perché è stato un ponte, un coagulante tra lei e me. In un certo senso siamo cresciuti videoludicamente insieme davanti a quei coloratissimi animali. Per questo ringrazierò sempre Rare e Xbox 360, pur se questo ha significato l’ultimo momento in cui la software house britannica fu, al netto di Sea of Thieves, davvero rilevante. Prima che si condannasse all’oblio inseguendo Nintendo sugli avatar o producendo titoli per il fallimentare Kinect.

I fratelli Chris e Tim Stamper furono capaci di creare un gioco per Vic-20 che era bello da vedere. Solo per questo meritano un posto nella hall of fame.

Appendice: il lato capitalistico di Viva Piñata

A mia figlia di cinque anni non potevo spiegarlo, ma un po’ lo intuiva che dietro alla facciata giocosa si nascondeva il male. Viva Piñata è feroce capitalismo. Ti sbatte in faccia l’avidità nel peggiore dei modi ma, come in un incubo MAGA, ti ricompensa nel perseguirla, tracciandola come l’unica strada percorribile.

In teoria vorresti solo creare uno splendido giardino, ma nel mondo turbocapitalista delle piñate ogni cosa ha un prezzo e un valore: sementi e fiori si traducono in soldi, tutti gli umani coi quali si interagisce sono alla ricerca di un profitto e ogni compravendita pare sottintendere una sonora inchiappettata. Il costruttore, la venditrice di sementi hanno un atteggiamento così tanto da Mr. Burns che te li immagini intenti a sfregarsi le mani a ogni transazione. Ci sono soggetti dalla dubbia moralità come Gretchen che, lo si intuisce, non è altro che una schiavista di piñate, o l’altro fenomeno di Bart che hai più la sensazione di corrompere che pagare o ancora Artur, che gestisce una taverna che è in realtà un’agenzia interinale e dio solo sa che percentuali prende sui lavoratori.

Nella mia interpretazione “no logo”, i Ruffians non sono altro che animalisti animati da ottime intenzioni con effetti disastrosi.

Non siete ancora convinti? Allora che dire del fatto che praticamente coi soldi nel villaggio ci si possa comprare praticamente qualsiasi cosa, che non ci sia riposo nemmeno di notte, che si possa assoldare della forza lavoro (probabilmente sottopagata), che l’arrivo di un mendicante sia visto come degradante al punto da doverlo pagare per mandarlo via e che la ricchezza deriverà solo dalla mancanza di scrupoli nell’allevare intensivamente animali per rivenderne la prole? Che bisognerà sacrificarli in maniere anche cruente (facendole mangiare da altri esemplari, bastonandole per farne fuoriuscire i dolcetti) per dar vita a nuove varianti?

Il gioco trasmette il peso di questa crudeltà: le piñate malmenate producono rumori orribili (prima del festoso suono che accompagna la fuoriuscita di coriandoli e dolcetti); rivenderle o spedirle a feste private solo per soldi ha connotati morali sbagliatissimi (non ho mai voluto sapere cosa succedesse in quei luoghi).  Subdolamente, attraverso le ricompense, Viva Piñata colpevolizza sottintendendo che “sei tu che lo vuoi”. La cosa peggiore è che sono certo che questa lezione la mia piccola di 5 anni l’abbia interiorizzata per poi fregarsene. Quando diede il joypad a sua madre e quest’ultima, in un accesso di panico, si mise a martellare il tasto della palata su una variante di Roario (un leone sgargiante e costosissimo) uccidendolo, il suo commento esasperato fu “mamma, valeva tantissimi soldi!”.

Questo dice molto del gioco e pure dei messaggi che ho lasciato le veicolasse.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent’anni di Xbox 360, che potete trovare a questo indirizzo qui.

Vent’anni di Xbox 360 | Cover Story

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