King Kong fa la sua cosa
Non rigioco mai ai titoli narrativi. In realtà non rigioco mai a nulla che non sia un vecchio arcade. È contradditorio, visto che sono un collezionista, ma è risaputo che collezionismo e utilizzo possano costituire un raro esempio di quello che Scalfari definì “convergenze parallele”.
Per la mia iniziazione a Retroutcast, mi sono sottoposto alla pratica del recupero totale, cioè dall’inizio alla fine, di Peter Jackson’s King Kong – The Official Game of the Movie (Ex Plus Alpha DX Remastered) un gioco il cui titolo è più lungo dell’esperienza stessa e prodotto che costituiva la punta di diamante di Ubisoft per il lancio di Xbox 360, e dunque decisamente importante per le sorti commerciali della neonata console.
È stato un processo a modo suo illuminante. Ricordavo molto poco, eppure la sensazione di familiarità era fortissima. Per quanto abbia apprezzato questo secondo giro, mi son trovato in certi momenti a voler troncare anzitempo. Esaurita la spinta iniziale della curiosità e rimessa in asse la memoria, ero conscio di quello che sarebbe arrivato dopo e avrei voluto tagliare corto. La pila del backlog mi guardava sconcertata del fatto che io cincischiassi nuovamente con questo tripudio di grigi, giallini e verdognoli.
Tuttavia, rivivere le gesta di Jack, Ann e Kong ha rinfrescato quei ricordi, mi ha aiutato a dare al gioco prospettiva artistica e collocazione nella linea evolutiva del videogioco. King Kong nasceva come una stretta collaborazione tra Peter Jackson e Ubisoft. Si narra che sia stato infatti il regista a voler avere Michel Ancel a bordo, dopo aver apprezzato le capacità ludico-narrative di Beyond Good & Evil. Ed è dichiarato anche nelle interviste contenute negli extra che Jackson abbia fornito indicazioni e consigli sulla direzione da imprimere al progetto. Il gioco, dunque, ha una genesi peculiare. Non la solita licenza da spremere, bensì la solita licenza da spremere bene e con creatività, coinvolgendo le alte sfere creative.
Ci sono più versioni del gioco, con strutture ed elementi sensibilmente diversi, e c’è qualcuno nel mondo che si è sentito in dovere di acquistarle. Tutte quante.
King Kong sorprende sotto diversi aspetti. In primis perché da un gioco basato su un film raramente ci si attende(va) molto, in particolare agli albori degli anni 2000. Lo sforzo produttivo di Ubisoft fu invece ragguardevole, la direzione coraggiosa e il risultato finale degno di lode. Quella messa in scena da Michel Ancel è una cavalcata attraverso Skull Island senza un attimo di sosta, assolutamente dinamica e cinematografica.
In secondo luogo, perché è un gioco che schiva il conservatorismo e introduce, in maniera primordiale, elementi che sarebbero stati ampliati da altre produzioni: si intravedono germogli di Assassin’s Creed nella deambulazione parkour del primate, c’è un timido tentativo di propagazione del fuoco che sarà ripreso da Far Cry 2, salvpo rare occasioni non esiste alcun indicatore a schermo ed è presente pure un rudimentale ecosistema animale con annessa piramide alimentare.
Nell’adattare la pellicola di Peter Jackson al joypad, la scelta è ricaduta su un ibrido tra prima e terza persona, con il primo a fare la parte del leone. La filosofia è quella di Half-Life, cioè un gioco d’azione con forti ambizioni cinematografiche. In quel solco che va dal titolo Valve a SOMA passando per Chronicles of Riddick, Metro, Bioshock, King Kong stesso e arrivando ad Uncharted (di per sé, ibridato da elementi action adventure di Tomb Raider), Michel Ancel plasma un’esperienza non banale. Pur essendo debitrice rispetto a chi è venuto prima, la struttura di King Kong non si ritrova 1:1 in opere né precedenti né successive. Il mix tra azione e puzzle ambientali, tra fuga sincopata e pressione costante, non è merce comune. Altri titoli appartenenti al medesimo filone sono maggiormente basati sulle sparatorie, con un gameplay più fluido e croccante. Inoltre, lasciano più spesso spazio all’esplorazione, all’acclimatarsi nei loro scenari e a momenti narrativi dove la cadenza rallenta. Salvo per un paio di scene (il tentato sacrificio di Ann, per esempio, oppure lo scambio di battute del capitolo “Free!”), Ancel predilige invece fughe rocambolesche e una sopravvivenza cruda e diretta, fatta di improvvisazione, costruita su momenti fortemente sceneggiati all’interno di micro-arene da interpretare sfruttando le due o tre possibilità alternative che i suoi sistemi introducono. Concede l’alternativa tra agire silenziosi, di astuzia o artiglieria alla mano, ma spesso le combina al volo, in sequenze di continua estemporaneità. Si intravede il DNA degli immersive sim, pur se in una rappresentazione decisamente sfoltita, atta a rendere l’azione appetibile al vasto pubblico a cui era indirizzato e a non intralciare lo svolgimento degli eventi.
Non si faccia l’errore di credere che questo sia un titolo che premia la libertà; è tutto molto contingentato, ma funziona perché l’idea di base è al servizio del ritmo, perché fornisce l’illusione di un gruppo che sta inventando la propria salvezza momento per momento. La furia di Skull Island si abbatte senza sosta sul giocatore, facendogli vivere una discesa all’inferno che vedrà pochi sopravvissuti e che lascia senza fiato. In tutto questo, i difetti non sono assenti, ci sono vari momenti un po’ goffi, altri abrasivamente trial and error; alcune scene con Kong possono alternativamente imbarazzare ed esaltare e una certa ripetitività della formula, nonostante una durata globale condensata, trascina la seconda parte un po’ per le lunghe. Tuttavia, proprio in virtù della limitata e compatta longevità, King Kong rafforza il senso di urgenza e di avventura mostrandosi videogioco, nella sua accezione deteriore, solo quando insiste, maldestramente, su logori archetipi quali cancelli da aprire o il remix della medesima fase di combattimento.
King Kong si rivela essere un affascinante unicum. Un titolo i cui elementi costituenti fanno parte dell’evoluzione del videogioco e sono ben rintracciabili nel suo prima e nel suo dopo ma dove l’amalgama finale plasma un progetto, che nelle sue pieghe, mostra lati distintivi consegnando un pacchetto come raramente se ne sono visti successivamente. E anche solo per questo andrebbe provato.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent’anni di Xbox 360, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.




