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Storie dall'inferno della programmazione

Storie dall'inferno della programmazione

Il cinquantesimo compleanno mi ha avvicinato alla falsa idea di un’onorevole pensione, ma più di ogni altra cosa mi ha fatto fare un balzo in avanti in termini di dotazioni tecnologiche. Amici e parenti, impietositi del mio vivere nella scorsa generazione, si sono prodigati regalandomi console di quella attuale. Qualcuno, invece, ha deciso di aprirmi un portale sul passato nelle vesti di un’ottima Miyoo Mini Plus, una di quelle consoline cinesi per il retrogaming.

È stata un’occasione per sperimentare finalmente certi arcade nella loro forma originale, dato che, vivendo in un paesino, molti di essi per me erano stati vissuti solo attraverso conversioni non proprio fedelissime. Come i più attempati sapranno, infatti, le trasposizioni da sala a home computer negli anni ’80 e primi ’90 erano un affare molto casereccio e non era affatto scontato che il risultato finale fosse attinente al materiale d’origine. I distributori acquisivano i diritti per le macchine occidentali e poi affidavano il lavoro alla software house del caso ma non esisteva molta documentazione sulla quale basarsi. Nella migliore delle ipotesi si potevano ricevere codice, file audio e appunti sul game design, ma era più probabile che venisse recapitato unicamente il coin-op in comodato d’uso da comprendere e scomporre una partita alla volta, oppure video integrali del giocato, artwork e fotografie. Nela peggiore? I soldi per affittare il cabinato, come fece Graftgold con Flying Shark e Ivan Ironman Stewart’s Super Off-Road. Nei casi drammatici, un sacchetto di monetine da spendere in sala giochi.

Rampage: l’arte di convertire con uno zainetto e un microfono
Gli anni passati sono stati forieri di post-mortem e aneddoti tra il tragicomico e l’eroico, testimonianze di un’industria estremamente lontana dalla professionalità odierna (o da quella giapponese dei tempi, per dirla tutta).

Una storia che ha gli estremi della commedia napoletana è quella della conversione di Rampage (Activision, 1986). La società statunitense non fornì alcun supporto a chi si era aggiudicato il progetto, così Richard Knightley, proprietario di Designmaker, società assegnataria della conversione, e i programmatori Andrew Parton e Bob Pape, si recarono alla sala giochi locale e testarono intensamente per poco più di un’ora il gioco. Non avevano nemmeno i soldi per affittare una telecamera. Quindi la soluzione adottata da Pape fu geniale quanto raffazzonata: stipare un registratore all’interno di uno zainetto, collegarci un microfono fissato con nastro adesivo alla spalla, in modo da avere le mani libere, e, giocando, commentare in diretta ciò che accadeva a schermo: quanti palazzi erano presenti, i colori usati, la tipologia di nemici, addirittura i titoli dei giornali tra un livello e l’altro. E poi ti stupisci se le conversioni vengono fuori male.

Fortunatamente, a un certo punto dello sviluppo qualche anima pia in Catalyst (la casa madre di Designmaker) pensò di recapitare un breve video del giocato che, pur se non risolutivo, andò a compensare la mancanza di documentazione visiva.  Non stupisce che molte delle sottigliezze dell’arcade, come il fatto che lo scimmione George, da emulo di King Kong, possa solo prendere in mano donne (e gli altri due rispettivamente uomini e businessman) non siano minimamente contemplate nelle versioni casalinghe. Tutto questo senza nemmeno commentare il fatto che la deadline fosse stata anticipata all’ultimo o che, a ventiquattro ore dalla consegna del master, Pape non avesse ancora messo mano al sonoro e fosse privo dell’esperienza per farlo (salvifica fu l’intuizione di un collega che gli fece notare che la maggior parte dei suoni erano esplosioni ed effetti che potevano essere ricreati alla bell’e meglio utilizzando rumore bianco). Ciliegina sulla torta, il testing consisteva nel provare il gioco una volta dall’inizio alla fine e tanti saluti. E poi ti stupisci se... ah, no, l’ho già scritto.

Una lettura a tratti esilarante.

Rainbow Islands: il problema delle 3 isole
Anche nei casi più virtuosi, c’era da considerare la lentezza negli scambi postali tra occidente e Giappone (da dove provenivano i migliori coin-op) e la barriera linguistica. Per i port di Rainbow Islands (Taito, 1989), i musicisti di Graftgold decisero di interpretare la musica originale riproducendola a orecchio, piuttosto che basarsi sulle indicazioni ricevute dal Sol Levante, proprio perché le annotazioni non erano comprensibili.

A volte erano le incompatibilità tra sistemi a costituire una barriera. I file IFF forniti da Taito per il citato Rainbow Islands, per esempio, non erano leggibili dall’Atari ST (lead platform del progetto) e forzando una conversione si era a rischio di perdita di informazioni. Una volta convertitili in qualche modo, poi, ci si poteva trovare di fronte a librerie molto vaste ma che potevano essere manchevoli e per contro magari comprendere materiale scartato nella versione finale. Quando i tecnici di Graftgold riuscirono a trasmigrare i dati, non trovarono alcune delle animazioni essenziali. Ironia della sorte, si imbatterono però in frame di Bub (il personaggio principale) che surfava sugli arcobaleni o altri nei quali si cambiava i vestiti travestendosi da Superman. Tutte movenze mai integrate nell’arcade.

Andrew Braybrook, uno dei cinque sviluppatori che si occuparono del progetto in Graftgold, nonché il padre di Paradroid e Uridum, racconta che un collega una volta dovette convertire un gioco solo basandosi su un video inviatogli dal produttore dell’originale arcade. Qualche mese dopo la pubblicazione, ebbe modo di provare a fondo il cabinato e rimase sorpreso di come un boss di fine livello si comportasse in maniera sensibilmente diversa rispetto alla sua conversione. Questo perché non sempre durante una partita si possono attivare tutte le mosse di uno specifico antagonista. Alcune reazioni dipendono dalle azioni del giocatore. E ciò portò a una conversione monca.

C’è più di quanto inizialmente sembri, in Rainbow Islands.

Lo stesso Braybrook, nonostante abbia confermato di aver ricevuto una gran mole di dati per la conversione di Rainbow Islands, racconta che scoprirono solo in corso d’opera che le isole nel gioco sono 10 e non 7. Le restanti tre si attivano solo compiendo specifiche azioni. Nella documentazione erano presenti pochissimi accenni a questi livelli aggiuntivi “Nemmeno l’editore lo sapeva e noi avevamo fatto un preventivo per 7 isole. Le 3 nascoste sono persino più grandi della settima e una di esse (l’isola Darius) ha una palette di colori completamente diversa, il che avrebbe reso molto difficile integrarla nel nostro schema”. Il modo in cui Braybrook e soci avevano deciso di ovviare alle limitazioni di colore delle macchine 8/16 bit era quello di dedicare 13 colori agli sprite e usare i restanti 3 per lo sfondo delle isole. Queste nuovi livelli avrebbero messo in crisi tutta l’impalcatura.

A onor del vero, nella documentazione ricevuta esistevano alcuni elementi grafici e accenni a questi stage extra. “Avevamo trovato alcune immagini misteriose di cui non conoscevamo l’uso, ma a quel punto avevamo visto anche altre grafiche che eravamo abbastanza sicuri non fossero nel gioco” come le citate animazioni di Bub Superman. Insomma, l’impossibilità di comunicare con i creatori originali e la fornitura di materiale senza un contesto avevamo portato la software house inglese a congetture drammaticamente errate.

“Si può immaginare la nostra gioia” aggiunge ironico “quando David O’ Connor (il loro collega deputato a testare e filmare l’arcade) migliorò nel gioco e ci rendemmo conto che le schermate di 'fine' che vedemmo dopo l’isola 7 suggerivano che lo avevamo completato nel modo sbagliato. A quel punto avevamo scoperto che a volte appariva una porta segreta nella stanza del boss. Scoprimmo anche il motivo, riuscimmo così ad attivarla ogni volta e giungere alla sequenza alternativa alla fine del settimo stage. Apparvero le 3 nuove isole ed erano enormi, molto più alte di tutte le precedenti!”.

Nonostante la scoperta, il tempo rimasto prima della pubblicazione era ridottissimo “Man mano che ci avvicinavamo alla scadenza, sapevamo che non avremmo avuto tempo nemmeno per mappare le nuove isole. Non avevamo previsto di lavorarci e questo mise fine a qualsiasi possibilità di aggiungerle”. Braybrook ebbe almeno il modo di rifarsi anni dopo con la conversione su PC, Saturn e Playstation, dove peraltro potè riciclare tutte le routine di comportamento programmate per l’Amiga e inserire qualche miglioria grafica. Tuttavia, brucia ancora quel port per 8 e 16 bit rimasto monco.

Acetato sulla TV e VHS in pausa: l’arte del ricalco
Per la conversione di Forgotten Worlds (Capcom, 1989), Arc Developments non ricevette altro che la scheda del coin-op. Il codice era protetto e inaccessibile. Il gioco dovette essere riprodotto a sentimento, con l’unico supporto dato da una modifica apportata da Arc Developments stessa, che consentiva di mettere in pausa la partita, e da rudimentali strumenti di cattura delle immagini che permettevano, con molta pulizia manuale, di replicare gli sprite originali. In alcuni casi i risultati erano così pessimi che si preferiva ridisegnare tutto a mano.

Quest’ultima opzione, per alcuni, era l’unica strada. La possibilità di mettere in pausa, per esempio, non era tra quelle disponibili a Graftgold per il citato Rainbow Islands. Dunque, dovettero utilizzare la VHS del giocato e bloccarla nei punti clou per riprodurre a mano la conformazione dei livelli. Il tutto prima che il videoregistratore non ripartisse automaticamente (una protezione presente nei vecchi modelli per non rovinare irrimediabilmente il nastro). Quanto sopra per cinque formati diversi, da gestire in sei persone nell’arco di soli quattro mesi.

Il double pack uscito su Saturn, PlayStation e PC nel 1996 includeva alcuni miglioramenti grafici e anche la rettifica di minime smagliature estetiche presenti nell’arcade originale.

La stessa problematica fu sperimentata con la conversione di R-Type (Irem, 1987). In quel caso, perlomeno, il filmato era stato fornito direttamente da Irem (che successivamente recapitò anche un cabinato) e contemplava una navicella invincibile che non interagiva in alcun modo con i nemici, permettendo ai designer di tracciarne i pattern di volo (se fosse stato uno sprite invincibile e “fisico”, avrebbe impattato con alcuni nemici facendoli esplodere, negando la possibilità di capire come il loro volo sarebbe proseguito). La soluzione fu nondimeno artigianale, con il programmatore (lo stesso Pape di Rampage) che prima appiccicò delle strisce di acetato sulla TV sulle quali, con un pennarello, replicava le linee che i nemici tracciavano. Trovando il risultato poco pratico, passò a disegnare dei rettangoli nei quali riproduceva sommariamente lo sfondo. Su questi segnava il punto di entrata e su un altro rettangolo il punto di uscita o ogni peculiare variazione all’arco di volo.

La cosa buffa? Si scoprì che in realtà Irem aveva inviato tutta la documentazione: nomi dei nemici, elementi grafici, informazioni di design, etc... Essendo però in giapponese, Activision pensò di mandarla a tradurre. In uno sberleffo del destino, la traduzione arrivò giusto qualche giorno prima dell’uscita della conversione nei negozi.

La conversione di R-Type per Zx Spectrum ha del miracoloso, anche se la vera storia famosa, a metà tra il dramma e il legal thriller, è quella della conversione per C64. Includeva copyright infranti, maghi della programmazione, deadline impossibili e doppiogiochisti. Una per un’altra occasione

Quando persino la fortuna ti volta le spalle
E che dire della sfiga cosmica che colpì Special-FX? Per una volta che una conversione poteva beneficiare di tutti i dati necessari consegnati in comodi file, essi si rivelarono irrimediabilmente corrotti. Il risultato fu che dovettero ricostruire Midnight Resistance (Data East, 1990), completamente a mano, senza ausilio documentale alcuno.

Sono storie tipiche di quegli anni, non certo eccezioni, che vanno parzialmente a giustificare la qualità altalenante dei port e la loro differenza rispetto agli originali (oltre naturalmente ai sistemi di controllo sacrificati e ai processori indubbiamente meno performanti delle macchine da casa). Racconti di lavori spesso portati avanti in uffici attrezzati in maniera approssimativa e con programmatori sottopagati o pressati da scadenze proibitive.

In tutto questo, sa di ribellione proletaria l’aneddoto dietro le versioni per Atari ST e Amiga di Mercs (Capcom – 1990). Anche queste furono sviluppate utilizzando esclusivamente la macchina arcade come riferimento e, in un momento di creatività, gli sviluppatori Anthony Ball e David Bland introdussero un’arma totalmente folle e fuori contesto rispetto all’atmosfera seria e pomposa del gioco: una a forma di naso da clown. Un tester la individuò e la segnalò per la rimozione. Stizziti, Ball e Bland aggiunsero un livello segreto nella versione Amiga chiamato Secret Garden, che conteneva proprio l’arma proibita. Non si fermarono qui e, contravvenendo alla politica aziendale di Tiertex (software house che stava gestendo la conversione per U.S. Gold), nascosero i loro nomi nella schermata dei riconoscimenti, rendendoli accessibili premendo il tasto asterisco del tastierino numerico. È proprio vero che non tutti gli eroi indossano una maschera.

 Sitografia:

The Beginning – Andrew Braybrook

The Human Machine Art Interface: Arcade Port Aesthetics and Production Practices – Kieran Nolan

It’s Behind You: the Making of a Computer Game – Bob Pape

Xbox 360 - La generazione nella quale ho giocato a TUTTO

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