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E adesso… pubblicità! – Volume 2: Nel cuore del tuo video

E adesso… pubblicità! – Volume 2: Nel cuore del tuo video

Le ricerche su Internet talvolta hanno un’affinità peculiare con le indagini poliziesche, ogni briciola porta a un’altra e a un’altra ancora. Ci si muove su una traiettoria, ma poi qualcosa di inaspettato attira l’attenzione, si imbocca una pista secondaria e si perde momentaneamente il focus, scoprendo però molto nel contempo. È quella sensazione soverchiante da open world: alla fine, ci si trova con una mappa colma di bandierine e si vorrebbe fare e vedere tutto.

Ho scoperto di avere un problema col completismo anche quando scrivo. L’incursione nel mondo pubblicitario era, nelle mie intenzioni, un articolo unico che avrebbe toccato alcuni esempi chiarificatori per tracciare tendenze ed evoluzioni. Ma per ogni esempio che ricordavo, ne spuntavano altri sconosciuti e altrettanto meritevoli. E quando mi trovavo per le mani casi a sufficienza, era come se fossi a metà del guado, tra un bagaglio aneddotico troppo corposo per l’idea iniziale e una collezione notevole ma non esaustiva. Potevo solo proseguire.

La chiusura brusca del volume 1 era stata dettata dal renderlo fruibile in una tempistica di lettura consona alla rete. Io stesso, un po’ vergognandomene, fuggo dai papiri digitali e infliggerne uno ai lettori di Outcast era l’ultimo dei miei obiettivi. Il materiale è però tanto, più di quanto mi fossi prefigurato in principio anche solo per trattare il primo argomento, cioè l’esposizione del corpo femminile. Non vi sarà forse inoltre sfuggito che non fosse presente alcun contributo video. Non solo perché agli albori del videogame, come accennato, gli spot erano presidiati da atmosfere familiari o popolati da bimbi e preadolescenti ma proprio perché includerli avrebbe allungato eccessivamente lo scritto. C’è in realtà un altro motivo dirimente per tale scarsità nella precedente uscita: gli spazi pubblicitari costano. E gli spazi televisivi validi sono per lo più sulla TV generalista, in particolare in Europa, che ha visto la nascita di canali alternativi a quelli istituzionali, che non fossero piccole reti private, ritardata rispetto agli Stati Uniti. Un canale generalista riflette i suoi spettatori, spendere qualche centinaio di migliaia di euro per far passare un messaggio destinato ad un pubblico di nicchia avrebbe senso quanto vostra nonna che affitta il videowall di Times Square per ricordarvi di comprare il pane (e manco abitate a Manhattan). D’altra parte, anche la produzione d’oltreoceano di materiale da maneggiare con cura è stata limitata, pur disponendo di canali tematici, proprio perché lo zapping è accessibile da chiunque alla sola pressione di un tasto. Esporre i bambini e un pubblico troppo variegato a certi tipi di messaggi è raramente una buona idea. In sintesi, il combinato disposto di costi elevati, polemiche potenziali e media fuori target ha limitato la proliferazione di video a contenuto sessuale. Non è un caso che molto di quello che troverete proseguendo nella lettura nasca con il nuovo millennio e abbia un nome ben preciso: YouTube. La piattaforma vede il suo lancio nel marzo del 2005, abbassa i costi di promulgazione e, assieme alle tecniche nascenti di profilazione, rende più facile veicolare il messaggio al consumatore di riferimento. Una manna per i pubblicitari. Quel primo filmato girato davanti alle gabbie degli elefanti dello zoo di San Diego, che segnò l’inizio delle operazioni della società californiana, quelle gabbie metaforicamente le spalancò.

Eccoci qui, dunque, per un altro giro di iconografia che potrebbe essere bloccata dai firewall aziendali e immagini che potrebbero ricadere nella categoria NSFW. Slacciate le cinture, si parte.

Ricollegandoci all’apertura e al ruolo di You Tube, non desta sorpresa notare che solo uno degli spot che seguono è antecedente al suo lancio: il pudico Metroid Prime 2: Echoes, del 2004, qui incluso a testimonianza di una Nintendo che aveva cambiato pelle, in particolare in USA, e che avrebbe cavalcato quest’onda fino all’epoca Wii, per poi ritracciare nuovamente su territori a lei più familiari. Quello in mostra è un caso da manuale di sessualizzazione normalizzata, quella che non destava clamore, incorporata com’era nella cultura del periodo, e che ancora oggi potrebbe parzialmente passare sotto i radar. Nello spot la telecamera indugia brevemente su terga e respingenti della modella per poi buttare lì 6 secondi di giocato (cronometrato, non è un numero a caso), dando lo stesso spazio a forme anatomiche e immagini in game. Considerando che, nel primo Metroid, la protagonista Samus si rivelava essere una donna solo negli ultimi attimi di gioco, è decisamente uno stravolgimento di priorità.

Lo spot Nintendo, in quanto destinato alla TV, si muoveva su un crinale scivoloso senza tuttavia perdere l’equilibrio. Lo sdoganamento del messaggio su piattaforme digitali aveva invece aperto spazi prima inimmaginabili. Pubblicitari probabilmente desiderosi di riciclare tecniche che temevano di aver dovuto relegare alla sola carta stampata, si esibirono in un tuffo intenzionale, altro che sbilanciamento.

WWE Smackdown vs. Raw 2008 e Mx vs, ATV Untamed non solo condividono la filosofia di titolazione o il fatto di essere espressione sportiva del cuore dell’Americana, ma mettono in campo campagne che puntano dritto per dritto alla loro audience fregandosene del resto. Non si fanno problemi nel compiacersi dell’eccesso perché sanno che eventuali critiche non arriveranno dal loro target group e saranno dunque altamente trascurabili. Tuttavia, se il titolo di wrestling quantomeno riporta il tutto in una cornice di giocosità (e da un certo punto di vista, di parità dei sessi), la campagna per Mx vs. ATV Untamed è quasi un video softcore. Cerca di giustificare la sua esistenza incorniciando lo scontro tra mezzi a due e quattro ruote nell’alveo dei grandi conflitti della storia, tra i quali non può mancare quello tra bionde e more. Il risultato è una campagna che mira scientemente sotto la cintura, suggellando il tutto con un bacio saffico sul finale.

In questa corsa verso l’eccesso, Juiced (2005) vince a mani basse. Vien da chiedersi come Lawton, l’agenzia inglese che ha realizzato il video, pensasse di poterla fare franca. Al di là del cattivo gusto nel paragonare il cambio di livree di un’auto al corpo di una ragazza, peraltro fisicamente molestata, qui non si tratta nemmeno di una trovata provocatoria, è un atto di rara stupidità nonché uno spreco di risorse. Lo spot ha visto la luce per un millisecondo prima di venire giustamente censurato e oggi è quasi più facile trovarlo sui siti per adulti che sui canali tradizionali. Sia ben chiaro, da un punto di vista delle immagini siamo in territorio Boldi & De Sica, non c’è null’altro che un seno e un sedere, ma è come è tratta la materia a renderlo criticabile.

Perlomeno per la pubblicità di Saints Row 2 (un titolo smodato di suo). Volition ha giocato allo scoperto, dichiarando chiaramente i propri intenti con l’arruolamento dell’esplosiva pornoattrice Tera Patrick. Il tutto è giocato sulla sessualità ma con un grande sottotesto di ironia e lo spot, nel suo complesso, risulta divertente. La pornostar è, nella fiction della pubblicità, stata assunta come produttrice del gioco (per usare le sue parole, perché lei è nota per essere “the best finisher in the business”) e il video è una scusa per annunciare i diari della sviluppatrice da seguire sull’apposito sito. Si potrebbe obiettare che la sua inclusione sia in realtà accessoria e slegata dal contesto e sarebbe verissimo: presa a sé stante, è una clip pretestuosa e non c’è dubbio che l’unico motivo per la presenza della pornoattrice sia di catturare l’attenzione del pubblico maschile. Però, il suo inserimento come personaggio giocabile, la sua dichiarata e riconosciuta passione per i videogiochi e un secondo spot dedicato al DLC assolutamente divertente giustificano la mossa, quantomeno più a fuoco rispetto all’operazione MX vs. ATV Untamed, offrendo un gancio concettuale con il gioco.

Nel solco dell’ironia, marcia a passo di carica anche lo spot Fear Away. Ideato come una delle tante televendite che si potrebbero vedere su QVC a notte fonda, nei due minuti di durata mostra un dottore (“Not a real doctor”, ci tiene a sottolineare la sovraimpressione) che illustra i benefici del programma per ridurre lo stress da paura che F.E.A.R. 2 potrebbe indurre nei videogiocatori (inclusa la sindrome da intestino irritabile). Nel video, si vede un utente al parossismo della sua reazione di panico (“dramatization – not a real gamer” rassicura di nuovo la scritta a schermo) venir trattato in vari modi attraverso le differenti opzioni offerte dal programma, il cui servizio gold prevede due infermiere che affiancano e confortano durante l’esperienza di gioco. Le operatrici sono tutte vestite con autoreggenti e fortemente scollacciate. Pur essendo un’evidente sessualizzazione, il riferimento è proprio a quel tipo di televendita, in particolare del decennio precedente, dove la presenza femminile era fortemente provocatoria. In maniera furbesca, dunque, il promo gioca sull’ambivalenza, in qualche modo giustificando, nel contesto del periodo, l’eccessiva mercificazione delle sexy modelle.

Non sempre quanto viene prodotto arriva al pubblico e ciò può accadere per svariati motivi. Nel mio periodo lavorativo nel mondo delle bevande alcoliche, partecipai alla creazione dello spot di Aperol Soda, per il quale venne filmata una serie di tre episodi. L’aperitivo era in fase di lancio, sulla scia di un riuscito rinverdimento del marchio Aperol.

La versione Soda era rivolta ad un gruppo di consumatori che, sulla base della segmentazione psicografica Eurisko (l’istituto di riferimento per le ricerche di mercato qualitative), si chiamano delfini; messa giù grezza, sarebbero i fighetti opinion leader. Ambientazione e tematiche della campagna dovevano dunque riflettere le aspirazioni di questa categoria e distanziarsi dalla bionda istituzionale del marchio padovano. Sotto l’ombrello dello slogan “30 secondi di vero piacere”, vennero ideati e girati i tre video. Uno di questi vedeva un sub emergere da una piscina e, con la tipica cattiveria infantile, dare sfogo a quella perversione maschile di smontare e spaccare il simbolo sempiterno delle bambole: Barbie. In realtà era forse una Tania, la versione tarocca, pure un po’ modificata, ma insomma, una volta visto lo spot in fase di anteprima, in sottofondo tutti percepimmo lo scribacchiare delle penne degli avvocati Mattel intenti a far causa. Quello specifico episodio rimase negli archivi, mai trasmesso, a memoria di una pianificazione non ottimale.

In realtà, e perdonatemi un’altra piccola parentesi di cazzi miei, quella campagna in azienda fu memorabile anche per altri motivi. Uno di questi era dovuto alla protagonista dell’episodio Intervallo, nel quale un marito davanti alla TV scopriva le proprietà magiche del suo telecomando, capace di far sparire la fastidiosa moglie sostituita da una modella che, alla pressione dei tasti, si denudava e si esibiva in mosse provocanti. Fino all’epilogo da “chi troppo vuole nulla stringe” dove, a forza di pigiare, la spogliarellista era sostituita da una pecora che si moltiplicava in numero sul tappeto musicale dell’intervallo della RAI. Bene, la protagonista era la Venere Bianca, pornostar di discreta fama in quegli anni. Quando la notizia apparve sulla copertina di un settimanale tipo Novella 2000, scattò la modalità panico. Se uno dei manager, particolarmente conservatore, avesse saputo di aver ingaggiato una tale testimonial, sarebbe stato problematico. Risultato: edicole del circondario svuotate, ufficio marketing saturato di tutte le copie della rivista reperibili e pericolo scampato.

Ora, questo passaggio non è semplicemente autocelebrativo, perché mi dà il gancio per specificare un fatto. Come cercavo di esprimere nell’articolo precedente, non ritengo disdicevole il mostrare un corpo femminile (costumi e biancheria, per fare un esempio, hanno una naturale predisposizione di prodotto all’utilizzo di modelle e modelli poco vestiti), trovo fuori luogo però quando l’atto è fine a sé stesso. Nel caso succitato, dietro all’ingaggio della pornoattrice e dello svolgimento c’era una motivazione, c’era una narrazione e soprattutto c’era un trattamento che partendo dalla mercificazione in realtà chiudeva il cerchio ribaltando la situazione. Sotto questa lente, lo spot di Top Spin 4 sarebbe decisamente da catalogare come un bersaglio mancato. Lo deve aver pensato anche 2K Sports, il produttore del gioco, che infatti lo disconobbe. Ma c’è dell’altro. Il video arrivò al pubblico non tramite canali ufficiali ma perché condiviso dall’attrice Rileah Vanderbilt, co-protagonista con Serena Williams. La stessa tennista, in un tweet, annunciò che da lì a poco avrebbe pubblicato una clip molto sexy, ma poi non diede mai seguito a questa intenzione.

Ci sarebbe dunque da lodare 2K Sports per una scelta “controtendenza”. Per una volta non fu il pubblico o qualche politico zelante a mettere sotto i riflettori uno spot inappropriato ma lo stesso committente, che ritenne l’immaginario fuori brand (pur ammettendo che era stata una delle ipotesi al vaglio). Però… però la cosa non torna al 100%. Il filmato fu pubblicato sulla rete, senza conseguenze legali, senza richieste di rimozione. La massima “a pensare male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina”, resa famosa da Andreotti (ma da attribuire al cardinale Marchetti Selvaggiani), ha ispirato molti complottisti, eppure in questo caso parrebbe azzeccata. Bollando il video come “non autorizzato”, il produttore di Top Spin 4 si era assicurato visibilità, aveva contemporaneamente vestito i panni del paladino del buon gusto e non aveva reso vana la produzione del girato come accaduto invece nel succitato caso Barbie/Aperol Soda. Una vittoria (?) su tutta la linea.

Si può quindi essere particolarmente paraculi e cavarsela egregiamente. In Activision, supportati da Brett Radner Brands e DDB communications, non avevamo mancato di notare il parallelismo tra la fantasia di impersonare una rock star e i playback che ognuno di noi ha probabilmente inscenato in casa da solo almeno una volta nella vita. Uno dei più famosi, se non il più famoso, è quello di Tom Cruise che in Risky Business, al suo primo ruolo da protagonista, ballava in mutande sulle note di Old Time Rock and Roll. Partendo da una replica con due partecipanti di American Idol (David Cook e David Archuletta), Activision ha successivamente alzato la posta e allargato il portafoglio creando una serie Risky Business per promuovere il marchio Guitar Hero, mettendo in mutande il quartetto Kobe Bryant, Tony Hawk, Michael Phelps, Alex Rodriguez; riproponendo poi la scenetta con quattro leggendari allenatori dell’NCAA in due spot con protagonisti anche i Metallica (visibilmente infastiditi dalla terribile performance dei quattro) e arrivando fino a Taylor Swift per lo spin off Band Hero. Nel mezzo di tutta questa produzione c’era anche la paraculata che è di interesse per questo articolo, i due spot più sexy: quello con le playmate di Playboy, con cameo di Hugh Hefner e ambientato nella Playboy Mansion, e quello con Heidi Klum. Se fino a questo punto il tono era stato leggero e coerente con il materiale di ispirazione, un corpo così sinuoso come quello di Heidi Klum deve essere sembrato un’occasione da non sprecare agli occhi dei pubblicitari. Se è in parte una caduta di stile, il video non diventa mai pruriginoso se non forse in un momento specifico. Indubbiamente però si spinge quel metro oltre trasformandosi da parodia a speculazione. C’è poco da stupirsi, in un momento in cui i nuovi canali comunicativi avevano permesso forme di espressione più spinte e con una sensibilità all’argomento ancora in divenire, il caso Guitar Hero era ancora, come abbiamo visto, quanto più di pudico si potesse trovare.

Non altrettanto pudico (pur se non estremamente diverso, ma reo di soffermarsi a lungo su specifiche parti anatomiche) è stato considerato un video simile con (tante) Marisa Miller per Guitar Hero World Tour. Tanto va la gatta al lardo…

Altri esempi meriterebbero attenzione ma anche per questa volta abbiamo raggiunto il limite di sopportazione. Troveranno comunque spazio in futuro (vogliamo davvero privarci dello spot di Conker’s Bad Fur Day per Nintendo 64?). Nel prossimo volume, invece, disquisiremo di allusioni e doppi sensi e chissà se riusciremo a scoprire di quante puntate ancora si costituirà questa epica saga pubblicitaria. Vi aspetto.

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