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Sotto la superficie di Everdeep Aurora

Sotto la superficie di Everdeep Aurora

In The Legend of Zelda: Link’s Awakening c’è una lunga side quest tutta basata sullo scambio di oggetti sempre più strambi ed esoterici con gli abitanti dell’isola. La direzione da prendere, le cose da scambiare e le persone da consultare sono tutt’altro che ovvie e guidate. Nella maggior parte dei casi, se non si vuole far riferimento a una guida, è necessario prestare attenzione a quel che dicono i vari abitanti dell’isola di Koholint, che spesso parlano in maniera sibillina. Però ricostruire tutta questa catena di scambi per un premio, che a distanza di qualche anno nemmeno ricordo più, è uno dei momenti più divertenti e interessanti di quello Zelda che già di suo è uno fra i miei preferiti.

Ho rubicchiato questa immagine qui che, se non ricordo male, mostra tutti gli oggetti della quest di scambio in Link’s Awakening e mi ero dimenticato che ci fosse anche Yoshi!


Quell’idea di fidarsi dell’intuito, ascoltare le parole degli NPC e perdersi nei dettagli torna in Everdeep Aurora, che sembra costruito attorno proprio a quel principio lì, replicando anche l’estetica Game Boy Color del gioco originale, perlomeno nella sua versione DX a colori uscita qualche tempo dopo.

Everdeep Aurora si presenta come l’ennesimo platform con estetica retrò, tutto pixel art, palette limitate e musichette nostalgiche. Ma si percepisce subito che, anche se l’aspetto è familiare, sotto pulsa un cuore diverso dal solito.

Sì, si può giocare a quell’UFO catcher che si vede nello sfondo, d’altra parte è pur sempre un gioco giapponese.

Nei panni (o meglio, nel pelo) della piccola Shell, una gatta antropomorfa separata dalla madre da una pioggia di meteoriti che ha devastato la superficie, ci si inoltra sotto terra alla ricerca della mamma della protagonista, ma anche e soprattutto di una casa e di un luogo di appartenenza. Una storia che potrebbe sembrare infantile, ma che viene raccontata con sfumature mature, quasi esistenziali. C’è una malinconia sottile che attraversa tutto il gioco che mi ha emozionato non poco.

Everdeep Aurora è un metroidvania atipico: niente nemici, niente boss e niente combattimenti, solo amici che non hai ancora imparato a conoscere. Esplorazione, enigmi ambientali e tanta attenzione ai dialoghi. Si scava, si salta, si raccolgono gemme e potenziamenti, si sbloccano percorsi e si torna indietro per aprire nuove vie. La struttura verticale del mondo e la mappa segmentata spingono a un’esplorazione lenta, meditativa, quasi contemplativa. Ogni scorciatoia trovata dà una piccola soddisfazione e ogni personaggio incontrato è una scheggia di storia del mondo.

Su questa roba qui sono rimasto bloccato per parecchio, quindi non vi preoccupate se capita anche a voi.

Il mondo sotterraneo è un mosaico poetico di esistenze bloccate in un limbo: resti di civiltà, stanze abbandonate, tunnel dimenticati e laboratori disordinati sono solo alcune delle ambientazioni. E personaggi (tantissimi e carinissimi!) che si portano dietro ferite, memorie, manie e solitudini molto più umane di quanto l’aspetto infantile faccia pensare. Si ride anche, a volte, ma si ride con una certa amarezza e malinconia di fondo. La scrittura è vivace, piena di personalità, e anche se il tono è spesso tenero o buffo, non c’è mai infantilismo. Solo una profonda umanità, declinata in pixel buffi e battute spesso fulminanti.

Tecnicamente il gioco è solido, anche se qualche aspetto può spiazzare: i comandi non sono sempre precisi al millimetro e ci si può perdere facilmente tra i cunicoli senza indicazioni di sorta. Ma è un perdersi che fa parte dell’esperienza, non un errore di design. Come in certi sogni, (quasi come nel sogno di Link in Link’s Awakening) il senso non è sempre chiaro, ma lo spazio ha una sua logica interna, e seguirla diventa quasi una forma di meditazione. Non tutto fila liscio, sia ben chiaro: molte sezioni platform possono risultare frustranti, soprattutto a causa della risposta non sempre fluida dei controlli, e se non ci si gioca per un po’ è semplice dimenticarsi di cosa andasse fatto, considerando che non sono praticamente mai presenti indicatori di alcun tipo. È parte dell’esperienza, che piaccia o meno.

Ogni ambiente fa scattare un cambio di palette abbastanza radicale. Qui siamo sui toni del giallo, per esempio.

L’estetica è minimalista ma curatissima: ogni area ha una sua palette cromatica, che comunica sensazioni più che informazioni. Il verde quieto di un giardino nascosto, il blu spento delle gallerie acquatiche, il rosso cupo delle zone più profonde. Il tutto è inframezzato da piccole cutscene a pieno schermo con una pixel art francamente adorabile che ricorda molto le illustrazioni un po’ sgangherate di un libro per bambini. Anche il sonoro è parte integrante dell’atmosfera: musiche rarefatte, suoni ovattati, piccoli tocchi di synth che sembrano venire da un’altra epoca.

Sono anche sicuro che durante la mia partita io abbia solo scalfito la superficie di segreti e lore da trovare all’interno del gioco. Molti dialoghi e alcuni degli oggetti mi rendono abbastanza sicuro che ci sia molto di nascosto che non ho trovato, per cui tenete gli occhi aperti. Pur non avendone io la certezza, tutto fa pensare che proprio come il mondo sotterraneo in cui scaviamo, anche il gioco stesso abbia strati diversi per giocatori diversi.

Everdeep Aurora non cerca lo stupore sguaiato: non ti mette alla prova e non ti chiede di vincere, ma di restare ad ascoltare le voci dei personaggi che incontri. E di continuare a scavare, metaforicamente e non, in questo mondo magico e più umano e amaro di quel che sembri.

E al netto della sua legnosità, lo si fa volentieri, perché tutto sembra costruito per accogliere il giocatore. È un gioco che abbraccia i suoi riferimenti senza copiarli e che, nel suo piccolo, riesce a fare quello che i grandi giochi spesso dimenticano: restarti dentro, anche quando lo schermo dello Steam Deck (su cui funziona più che egregiamente) si spegne.

Vite sprecate

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