Outcazzari

La coda di paglia

La coda di paglia

“Sei a casa dopo? Passo da te. Ti devo parlare.”

Cazzo.

Di norma, la freddezza di R. via messaggio non mi avrebbe preoccupato. Siamo amici dalla prima media, lui ripetente, io spaesato. Il primo giorno ci unisce il banco, nei successivi tutto quello che può unire due pre-adolescenti maschi a metà dei ‘90: i pomeriggi al parco, la Serie A al suo apice, il Fantacalcio ai suoi esordi. la prima partita allo stadio vista da soli senza dire nulla a casa per sgranare finalmente gli occhi davanti a San Siro (Milan-Empoli, ripetizione pomeridiana di Coppa Italia). Ma soprattutto ore e ore passate a giocare davanti a uno schermo. Prima da me, edizioni su edizioni di PC Calcio, poi da lui, che ha iniziato a lavorare poco dopo le medie e coi soldi in tasca è fisso da Pergioco; non ho ancora conosciuto nessuno che al tempo riuscisse a far girare Trespasser sul proprio PC. Beh, insomma, R. lo conosco abbastanza bene da sapere che scrive sempre così. Secco. Breve. Asciutto.

Anche il fatto che volesse parlarmi, in una situazione ordinaria, non mi avrebbe agitato eccessivamente. Crescendo, avevamo perso per strada la capacità di confidarci che avevamo alle medie, cresciuti nel ribollente brodo del machismo tossico del decennio per cui le emozioni erano debolezze da nascondere, ma c’eravamo comunque sempre l’uno per l’altro. In qualunque altro giorno avrei pensato a una cazzata, a uno scazzo con qualcuno, magari anche a una scusa per farmi sentire lo scoppiettio di una nuova marmitta per la Clio. Ma quel pomeriggio avevo la coscienza sporca.

Qualche giorno prima avevo incontrato S., uno dei miei primissimi baci da ragazzetti e divenuta poi anni dopo la prima storia seria di R., finita come finiscono le storie quando la tua età ti porta a pensare che siano tutto ciò che di importante ci sia al mondo. Un incontro casuale, in provincia si abita tutti a qualche centinaio di metri l’uno dall’altro, quando con una mossa che di certo non apparteneva al savoir faire del me imbranato dell’epoca intuisco che quel sorriso e quello sguardo forse potrebbero sottendere una qualche disponibilità ad accettare un invito a bere qualcosa. L’incredulità per il successo di quell’approccio non esattamente collaudato maschera solo per poco un’altra consapevolezza: devo dirlo a R. prima che sappia in altro modo.

Solo che a R. non l’avevo ancora detto e nel giro di qualche ora avrebbe avuto lui qualcosa da dire a me. E visto che alla coda di paglia basta una scintilla di sospetto per accendersi, di colpo il pomeriggio mi avrebbe visto impegnato a domare un falò. Il programma, in teoria, era ben diverso: il calendario proponeva l'epilogo di una gloriosa Master League, giunta a conclusione forzata per il previsto pensionamento della vecchia PS2 che la ospitava, conseguenza dell’imminente salto della barricata verso una Xbox 360 in consegna per il giorno dopo. Dopo essermi lentamente allontanato nel tempo più per inerzia che per disaffezione, ero stato ri-attirato in orbita videogiochi da un GTA III a un lustro abbondante dall’uscita, ma soprattutto da R. che provava da anni a convocarmi a corte della boxarità dopo aver visto riaccendersi in me la fiamma. E a lui non l’avevo ancora detto di aver ordinato una 360. O meglio, non gli avevo ancora detto nemmeno quello. Perché ovviamente, se lo avessi sentito avrei dovuto cogliere l’occasione per parlare anche di S., così avevo rimandato di qualche giorno la questione, in attesa che una deadline mi obbligasse ad agire, come sempre. Ma ormai, c’era poco da rimandare.

Quando apro il cancelletto, dopo aver sceso i due piani di scala esterna a testa bassa cercando di tenere insieme tutti i pezzi di una giustificazione raffazzonata messa insieme alla disperata di fronte a PES, trovo R. che mi guarda ridacchiando. Tra le mani, dietro la schiena, ha una Steelbox di Halo 3.

“Benvenuto nella boxarità.” In provincia, tutti sanno sempre tutto.

Di S. gliene parlai qualche giorno dopo. Sapeva anche quello. Mi disse che era contento che gliene avessi parlato. Con S. uscii un paio di volte, tra noi non era cosa. Con R. quell’episodio rimase una parentesi su cui non tornammo più, io avevo fatto il mio dovere di maschio leale al branco avvisandolo, lui era stato perfetto nella parte dell’amico. Cosa pensasse davvero, se la cosa lo facesse soffrire in qualche modo, sono abbastanza certo, in quel momento non me lo disse, e io non lo chiesi. Non cambiò nulla (o quasi) nella nostra amicizia, ma quei giorni rimasero lì, rievocati solo per le notti su Halo 3. Per quanto mi riguarda, ci è voluto un decennio per padroneggiare gli strumenti emotivi che mi consentissero di avere abbastanza confidenza con le mie emozioni da affrontare quelle altrui. O magari, a R. davvero a quel punto fregava zero e sono anni che rileggo quella scena attraverso un mix di senso di colpa e coda di paglia .

Anche questa volta, però, è un messaggio a decidere al posto mio. È un qualunque giovedì pomeriggio, in una riunione in cui il mio telefono ha vibrato troppo e troppo spesso per non dare almeno uno sguardo fugace allo schermo. Il testo tra le notifiche delle chiamate perse non è di R., ma di sua cugina: “Clo, chiamami”.

La tag di R. sul Live è sempre la stessa di quelle sere su Halo 3 in cui mi portava in giro per le mappe, sfottendomi per la mia niubbaggine, anche se forse in fondo un po’ affanculo mi ci avrebbe mandato volentieri. Di questi tempi, quasi sempre gioca a Fortnite, ma mai fino a tardi, perché domani c’è scuola.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent’anni di Xbox 360, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

La mia schiavitù

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