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Vent'anni di rimorsi di coscienza: tanti auguri a Shadow of the Colossus

Vent'anni di rimorsi di coscienza: tanti auguri a Shadow of the Colossus

Nella mia testa, Shadow of the Colossus è un po’ come Skyrim. Lo so che è un riferimento sbagliato e che il modo migliore, forse l’unico, di collocarlo come artefatto culturale è all’interno della trilogia di Fumito Ueda (per gli amici del chiostro di filosofia “Fumato Uida”) che parte con Ico e finisce con The Last Guardian. Ma non ci posso fare nulla: per qualche bizzarro ma forse non incomprensibile motivo, identifico Shadow of the Colossus come uno di quei giochi di tale clamoroso successo da essere usciti su ogni console possibile e immaginabile.

Eccoci qua.

È un po’ un’esagerazione, nel senso che se è vero che a Skyrim manca solo di venire emulato su un test di gravidanza per fare l’en plein, SOTC di fatto è uscito su PlayStation 2, poi in una versione pitoccata ma non stravolta su PlayStation 3, infine in effettivo glorioso remaster su Playstation 4, che è giocabile pure su PlayStation 5. Di fatto esiste su quasi tutto l’ecosistema Sony, con l’eccezione della console più vecchia di lui e di quell’altro grandioso pezzo di hardware sul quale SOTC non ha trovato Vita (ah ah). È uno dei simboli di Sony negli anni e nei decenni, e anche giustamente, no?, è un’avventura single player, guidata, diritta, narrativa, ma anche giapponese, sperimentale, poetica, silenziosa. E OK questa seconda parte dell’equazione è venuta un po’ a mancare nelle ultime Grandi Bandiere Sony, spostate più decisamente verso il lato occidental/Naughty Dog della faccenda, ma insomma: PlayStation è sempre stata la casa delle sperimentazioni nipponiche immersive solitarie, e Shadow of the Colossus è (stato?) uno dei suoi simboli tanto quanto Halo o Gears of War lo sono (stati?) per l’approccio Xbox alla questione.

Cioè tu nel 2005 compravi la PlayStation 2 anche perché c’era Shadow of the Colossus, e altrimenti perché, considerato che Demon’s Souls sarebbe uscito solo quattro anni dopo? Non mi ha mai stupito la quantità di volte che questo gioco tutto storto è stato reimpacchettato e reiterato e riproposto, l’ho sempre visto come un simbolo di un intero ecosistema videoludico tanto quanto un Final Fantasy o un Silent Hill. E ci sono cascato ogni singola volta, peraltro, eh! Ho giocato, e finito, SOTC su tutte le PlayStation sulle quali sia stato possibile giocarlo.

Mostri grossi e dove trovarli.

Per cui è ovvio che questo pezzo andrà anche in direzioni personali, e non solo perché oggi, nel 2025, è difficile dire qualcosa di originale su Shadow of the Colossus che non sia già stato ripetuto in cinquanta sfumature di grigio da qualcun altro (altri) (tutti, chiunque). Per esempio: la prima volta che lo giocai e lo fini non fu “da solo”, e questa è una roba sulla quale ancora oggi mi interrogo relativamente a un sacco di giochi che ho giocato in vita mia. Quando ero giovane, nel 2005 di anni ne avevo 22 mannaggia ai sandali di quello là, c’era vicino a casa un Blockbuster, che non aveva solo i giochi a noleggio (un lusso che ci si concedeva solo con la certezza di avere l’intero weekend libero davanti) ma anche il mitologico cestone dell’usato. Io non so chi ebbe l’idea di dare dentro Shadow of the Colossus, ma so che per una manciata di svanziche ce lo portammo a casa e ci dirigemmo baldanzosi a casa dell’unico amico con una PlayStation 2. Lo finimmo nel corso del weekend, passandoci il controller tra un boss e l’altro – eravamo credo in tre, il che significa che abbiamo fatto cinque colossi a testa e quello finale lo abbiamo lasciato al padrone di casa.

Come dicevo, ancora oggi mi chiedo: l’ho finito davvero quel gioco? Quella volta, dico. In tre, gridandoci insulti e suggerimenti e possibili soluzioni ma sempre con il controllo fortemente nelle mani di una sola persona. Non ricordo i dettagli ma è possibile che almeno un colosso sia stato abbattuto perché la persona che giocava non aveva idea di cosa fare e uno di noi spettatori gliel’ha suggerito: in quel caso chi è che ha davvero “fatto il boss”, quello che ha capito o quello che ha eseguito? Ovviamente in un contesto del genere ci sfuggì in gran parte tutto il portato simbolico del gioco: i silenzi, gli spazi vuoti, la crisi di coscienza quando ti rendi conto che stai compiendo un genoc[redacted]. Non ci sfuggì lo shock della morte di Agro, ma perché è giocata con la stessa finezza con cui viene fatto fuori Artax in La storia infinita; ma rimanemmo (rimasi) colpiti soprattutto dal lato puramente ludico del gioco.

Chi stava tenendo in mano il controller in questa fase?

Perché oh, raga, io lo so che quando si parla di SOTC e di Fumato Uida in generale si tende a focalizzarsi su tutta una serie di aspetti emotivi e relazionali legati alle sue opere e al collegamento che c’è tra il pigiare bottoni e lo stabilire un rapporto profondo non solo con il proprio avatar ma i suoi compagni e persino con l’ambiente circostante. Ma oh, SOTC è una roba in cui non fai altro che affrontare boss talmente giganteschi che in qualsiasi altro gioco sarebbero un intero livello (v. la sequenza di apertura di God of War III, per dire). Era, nel 2005, un raro esempio di gioco che ti metteva nei panni di una foglia al vento e ti costringeva a sbatterti fino all’ultima goccia di sudore per non farti trascinare via. Sudore quasi letterale! La ruota della stamina, riciclata poi con enorme successo in Breath of the Wild/Tears of the Kingdom, altro non era se non un indicatore del sudore e della sbatta e dei crampi muscolari che ti prendono quando è mezz’ora che provi a scalare un grattacielo che si muove in cerca di un sigillo luminoso nel quale affondare il tuo coltello da cucina.

In questo senso, SOTC era una sorta di glorificazione di tutti i boss di Zelda: un gioco di scoprire punti deboli e colpirli con molta forza, mentre intorno a te succede l’inferno. Sono sedici e non ce ne sono due uguali (forse due o tre simili però sì, suvvia), e questo per un gruppo di ventenni è un’esca sufficiente e l’occasione per trasformare un titolo single player in un party game.

Dopodiché ho rigiocato a Shadow of the Colossus quando uscì in bundle con Ico, per inaugurare la PlayStation 3 che avevo finalmente comprato, entrando così nel mondo Sony per merito di From Software e dell’esclusività di Demon’s Souls. Al tempo di anni ne avevo già 28, ricordavo qualcosa ma non molto del mio primo playthrough condiviso, e soprattutto tenevo sopra ogni altra cosa al fattore immersività: si gioca solo la sera, al buio, in solitudine, con le cuffie, per assorbire e amplificare ogni istante. Aggiungeteci che al tempo avevo anche già letto migliaia e migliaia di parole su SOTC, i suoi significati, le sue metafore, il modo in cui usava robe che altrove sarebbero state identificate come “difetti” o “pigrizia” per trasmettere invece un messaggio e parlare al giocatore anche a colpi di vuoti.

Affondi & sensi di colpa.

Otterrete che per qualche giorno (alla fine non ci vuole molto a finire questo gioco, per quanto uno si impegni a stirarlo) cavalcai spesso senza meta e senza costrutto nelle lande desolate dove si svolge Shadow of the Colossus, accarezzandomi la barba e apprezzandone l’espressivo minimalismo. Perché oh, c’è poco da fare: il gioco di Fumato Uida è vuotissimo. Ci sono letteralmente solo i 16 boss (da fare peraltro in un ordine preciso), delle buffe lucertole da raccogliere e per il resto campi, montagne, colline, laghi, sentieri, mulattiere, robe tutte vuote, tutte disabitate, tutte piene di niente e rovine, qualcuno direbbe anche tutte vuote di gameplay: la quantità di tempo che si passa in SOTC a correre in giro tenendo pigiato un tasto per alzare la spada e sapere dove andare è superiore a quella che si passa a menare cosi giganti. È un gioco nel quale non succede quasi un cazzo, e che (fatemi fare il giochino da boomer) se uscisse oggi sarebbe punteggiato di eventi, segreti e cose da scoprire a ogni angolo, invece di farti trascorrere dieci, quindici, venti minuti a non fare nient’altro che cavalcare in giro e ammirare il minimalismo del paesaggio.

È ovviamente tutto quanto bellissimo, e per spiegare perché ci sono solo due soluzioni: o tirare in ballo la droga, un’abitudine dalla quale mi dissocio con veemenza, oppure discorsi diegetico-poetici sul vuoto che non ho i titoli per affrontare. Io la vedo così: giocare ai videogiochi è bello, cioè, è bello pigiare un tasto e vedere che qualcosa sullo schermo reagisce di conseguenza. Un’altra cosa bella dei videogiochi è farsi i cazzi propri: quando gioco a Tetris difficilmente ragiono su quello che succede a schermo, a quello pensa la parte ancestrale del mio cervello; quella più lucida (per quanto possibile) si occupa di tutt’altro, ragiona sul prossimo pezzo, ripensa al film visto ieri sera, pensa a una bella piadina alla Nutella. O magari rifletto sul videogioco stesso a cui sto giocando, ma senza essere presente sul momento: ripenso al boss che mi ha appena fatto un culo così e a dove ho sbagliato, per esempio (questa frase è un indiretto riferimento alla polemica sulle boss run tornata in auge dopo Silksong, e si traduce in “sucate”), o a come riorganizzare le mie abilità appena sarò passato di livello per aver ucciso questi sette ratti mannari.

Mi è sempre piaciuta molto, nei videogiochi, questa alternanza tra i momenti in cui devi essere e reagire a quello che sta succedendo e quelli in cui invece puoi pensare ad altro, mentre esegui compiti semplici e ripetitivi. E immagino non sia una passione solo mia, altrimenti non si spiegherebbe il successo di, be’, qualsiasi gioco con il crafting che prevede di prendere a pugni alberi per mezz’ora solo per costruirti una seggia. Ecco, in questo senso Shadow of the Colossus è come boh, Valheim, solo che invece di martellare vene di ferro passi un sacco di tempo a cavalcare e spostarti dal punto A al punto B. E qui scattano anche tutti i discorsi intelligentissimi sulla costruzione della tensione, quelli secondo i quali è proprio questo tragitto A-B a far sì che quello che succede quando giungi a B abbia l’impatto che ha. Se fosse un horror, Shadow of the Colossus sarebbe uno slow burn di quelli che vanno ultimamente, un film di Ti West, una di quelle robe agghiaccianti dove non succede un cazzo fino a che non succede tutto – solo ripetuto per sedici volte.

Qui, tipo, sta per succedere di tutto.

Ecco, ci sono: i vuoti di Shadow of the Colossus sono una meraviglia (e meno male, altrimenti il gioco non sarebbe un capolavoro) perché funzionano comunque li usi. Quando ero giovane e comunitario erano un modo per respirare, perché mica si parlava durante i combattimenti con i colossi, se non del combattimento stesso, e più a botte di ordini e suggerimenti estemporanei che di discorsi complessi. Quando si cavalcava si pensava e ripensava, oppure si discorreva di tutt’altro, consapevoli che al comparire della prima gigantesca struttura organica semovente ci saremmo messi a tacere per concentrarci sul modo giusto di farla smettere di muoversi. Da trentenne o quasi li ho apprezzati come momenti zen, di meditazione, di respiro, proprio di vuoto in quanto tale: c’è questa cosa bizzarra che è successa almeno alla gente della mia generazione per cui quando eravamo giovani, con la soglia di attenzione bassissima a causa degli ormoni e aperti a ogni tipo di stimolo, non sempre ne ricevevamo abbastanza da sentirci soddisfatti; dopodiché invecchiando gli stimoli, proprio in generale nel mondo, sono esplosi e ci hanno travolto con potenza inversamente proporzionale alla nostra calante capacità di gestirli. E quindi ci siamo ritrovati (mi sono ritrovato) a trent’anni ad apprezzare i vuoti e i silenzi per il loro valore intrinseco, per quello che sono e basta.

Quando invece ho rigiocato per la terza e penultima volta a Shadow of the Colossus, nella sua versione remake remaster retutto del 2018, avevo già 35 anni e mi ricordavo a memoria ogni singolo colosso, anche grazie alle decine di videoanalisi e let’s play vari che mi ero goduto nel corso degli anni. Ricordo quindi di essermi concentrato soprattutto sull’aspetto che al tempo (e immagino ancora oggi) scatenò più polemiche: la versione del 2018 per PlayStation 4 è rifatta quasi da capo a piedi, con un’estetica nuova e comandi più accettabili e aggiornati al tempo corrente. Questa roba ovviamente non piacque a molti dei puristi della versione originale, ma sapete cosa? Sticazzi. A me piacque un sacco, e soprattutto è l’esempio perfetto da usare per parlare di complessità in un’epoca di semplificazioni estreme: ci sono delle ottime ragioni per cui potrebbe non piacere (che per me si riassumono in “il fruscio del vinile” ma vabbe’, giudizio personale), che richiedono però una minima capacità di articolare il proprio pensiero per stare in piedi. Oppure se vi fa fatica accettate la realtà per quella che è: esistono due versioni di Shadow of the Colossus, ciascuna con i suoi pregi e i suoi difetti, e siamo fortunati che ne esistano due ugualmente valide e non solo una, cioè, in qualsiasi altro campo della vita “avere due cose belle invece di una” sarebbe considerata una vittoria, per cui perché non goderci anche la versione di Bluepoint, sapendo che se proprio uno sente la necessità può giocarsi quella originale senza troppa fatica?

Senza troppa fatica per modo di dire.

Vabbe’, menate che mi portano lontano dal mio discorso. Che è poi questo: Shadow of the Colossus è una figata, e come tutte le grandi opere d’arte lo rimane indipendentemente dall’età e dalla situazione nel quale lo giocate. Per dire: l’ho rimesso su in questi giorni per scrivere il pezzo e ancora oggi mi fa cascare la mascella, ancora oggi il settimo colosso mi mette a disagio in un modo che pochissimi grossoni nella storia dei videogiochi hanno fatto (ma forse si chiama “talassofobia”). Siamo fortunati ad averlo, e io mi sento particolarmente fortunato a essere sostanzialmente cresciuto in parallelo a lui.

(chiudo con la considerazione che ci sarebbe in teoria un film in sviluppo basato su SOTC. In sviluppo dal 2009: pensate che figata sarà quando uscirà!)

Ottobre 1975: Josh Sawyer

Ottobre 1975: Josh Sawyer