Destruction Derby contro ogni regola
Quello dei primi anni ’90 era un mondo di racing game belli, puliti e profumati. Dai cabinati SEGA e Namco scintillanti, coloratissimi, super cool, alla new wave del racing futuristico targata Wipeout, con Psygnosis che, nel ’95, da una parte si prende la scena proprio con quest’ultima hit, che condizionerà tutta l’estetica e impersonificherà l’aggressività e lo spirito futuristico della prima PlayStation, ma contemporaneamente deciderà di pubblicare un titolo sviluppato da Reflections (già famosi per gli Shadow of the Beast e che successivamente daranno vita a Driver) che diventerà baluardo dell’ignoranza motoristica di quel periodo; totalmente in controtendenza rispetto al mercato.
Perché una roba come Destruction Derby non si vedeva tutti i giorni. Poligoni accartocciati come mai si erano visti, traiettorie assassine atte a speronare gli avversari invece di esibirsi in derapate impeccabili alla ricerca del giro veloce. Praticamente un picchiaduro su quattro ruote che faceva dello sfogo e della distruzione, appunto, il suo vanto. Qui però non è tanto questione di come sia invecchiato (maluccio) ma di quanto sia stato un titolo di rottura e pionieristico nel proporre un certo tipo di fisica e di gestione dei danni, poi diventati fondamentali nei corsistici degli anni a venire. La distruzione sistematica degli avversari per guadagnare punti e posizioni sarà poi la base di una delle serie più iconiche della generazione successiva, Burnout, per dire.
In Destruction Derby c’erano già i geni del racing del futuro, in una forma sicuramente rozza, primordiale, con un sistema di controllo un po’ viscido che faceva il suo, per carità, ma se si fosse arrivati direttamente da Ridge Racer, sarebbe parso di guidare sbronzi dopo una grigliata domenicale in qualche campagna del Tennessee o giù di lì. Ed è infatti anche un gioco che riesce a dare una dignità ludica a un evento culturale tipicamente statunitense, il demolition derby, ripreso tout court in una delle modalità principali, dove ci si ritrova in una gigantesca arena, delimitata da tribune gremite di gente esaltata, ebbra di gas di scarico e birra annacquata, a distruggere tutto cercando di rimanere l’unico con il motore acceso. Il godimento è intrinseco e immediato: è il fascino perverso della lamiera accartocciata. Schivare gli avversari, prendere velocità e colpire un’auto sulla fiancata sbalzandola metri più avanti; retromarcia, BAM, testacoda, orientamento perso, danni ingenti. Bisogna essere rapidi, cercare una zona più calma e organizzare il prossimo attacco, mentre ormai lo sterzo stenta a rispondere e il radiatore butta fuori un fumo che puzza di game over. Vivere tutto questo alla luce di un tubo catodico era un’esperienza catartica. Vedere 1:1 i danni inflitti e subiti era la testimonianza di essere “nel” gameplay, di stare compiendo azioni tangibili, lasciare un segno (sulle carrozzerie altrui).
L’idea di gameplay di Driver era già tutta in Destruction Derby, andava solo contestualizzata!
Il secondo capitolo, uscito dopo appena un anno, migliorerà praticamente tutto, ma sarà Driver nel ’99 a portare il genere su un altro livello, ibridandolo al poliziesco e mantenendo un carattere sempre spiccatamente americano, con inseguimenti (e incidenti) pazzeschi, ispirati al cinema e alla TV di genere (non è certo un caso che da quello studio nascerà pure Stuntman), un motore fisico di altissimo livello e una distruttibilità delle auto ancora oggi impressionante, se rapportata all’epoca. E se si osserva nel complesso quello che Reflections ha portato al mondo dei racing game, durante quella generazione, si capisce subito quanti debiti abbiano nei suoi confronti una folta schiera di titoli e serie di successo, dal già citato Burnout a GTA, fino a FlatOut e molti altri. Perché i giochi ignoranti non vanno mai sottovalutati e Destruction Derby è esattamente quello, un’opera nata per spegnere il cervello e spaccare tutto, capace però di rivoltare le regole di un genere come un calzino.