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Cooperando con mia figlia

Cooperando con mia figlia

Avevo una mezza idea di dare un ultimo contributo alla Cover Story chiacchierando della mia esperienza di gioco in cooperativa con mia figlia e mi sono seduto davanti a questo foglio bianco pensando che avrei raccontato di questo o quel gioco che abbiamo affrontato e completato assieme, ma poi mi sono reso conto che non avevo voglia di parlare di quella cosa lì. Mi sono reso conto che mi sembrava forse più interessante parlare dell’esperienza in generale e di alcune riflessioni a cui mi ha spinto. Che poi è il genere di riflessione a cui mi spinge un po’ tutto quello che accade quando ho a che fare con mia figlia, a causa di quel modo in cui tira costantemente su uno specchio e mi mette di fronte a me stesso, ai miei comportamenti, alle mie idiosincrasie e all’atroce senso di responsabilità e di colpa che mi attanaglia quando vedo come la influenzo, la colpisco, la ferisco, vado almeno in parte a dettare l’evoluzione di chi è e chi sarà. Ed è una riflessione che è difficile non solo da fare, ma anche da tenere a bada, impedendole di imbizzarrirsi e bloccarmi in preda al panico, spinta da quella sorta di egocentrismo che a volte, messo di fronte a quanto di me (e di mia moglie) vedo in lei, mi fa dimenticare che si tratta di una persona indipendente, che pesca da mille altre fonti e che comunque ha una sua natura innata e scevra dal nostro controllo. OK, mi sto perdendo.

Qualche anno fa abbiamo giocato assieme a Ico. È stato bellissimo.

Il punto è che giocare assieme a lei, farlo in senso assoluto e farlo appiccicati ai videogiochi, che poi sarebbero il focus odierno, mi ha più e più volte spinto a prendere nota del mio approccio alla cosa e del suo effetto, talvolta “in diretta”, purtroppo fin troppo spesso a posteriori, quando mi sono trovato a riflettere su atteggiamenti e modi di pensare che mi sembrano almeno in parte figli di quel che ho fatto con lei. Il suo primo approccio ai videogiochi si è manifestato con lei che mi osservava giocare, spesso a cose di cui dovevo scrivere, e si esaltava, spaventava, lanciava nel tifo, guardandomi fare cose. Quando ho deciso di metterle in mano un controller, siamo partiti da mouse e tastiera, giocando assieme alle avventure punta e clicca di Humongous Entertainment. Lei gestiva l’azione, io mi limitavo a fare l’allenatore alle sue spalle, dando suggerimenti e parlando con lei di cosa fare. E, forse, ho fatto un po’ troppo l’allenatore, sono intervenuto un po’ troppo spesso suggerendole cosa fare, dove andare, levandole da sotto ai piedi la difficoltà, lo sforzo, la necessità di affrontare la sfida in solitudine, magari lasciar perdere, magari invece trovando la soddisfazione di avercela fatta da sola. Quella soddisfazione è arrivata poi, quando magari a quei giochi ha rimesso mano da sola, a volte bloccandosi e lasciando perdere tutta contrita, altre volte riuscendo ad arrivare fino in fondo. Ma, chissà, forse, con quel mio modo di fare, le ho infilato in testa il germe del dubbio, del non essere all’altezza, del “sapere” che non sa affrontare quel genere di cose e ha bisogno di me che le dica cosa fare. Forse è per questo che ha abbandonato Monument Valley a metà ritenendolo troppo difficile? O forse semplicemente non fa per lei? Forse sarebbe stata comunque poco portata per i giochi che ti chiedono di bloccarti per un po’? In fondo, pure io non mi faccio problemi a guardare le soluzioni, no?

Freddi Fish rimane forse la mia preferita fra le serie di Humongous, ma è una bella lotta con Spy Fox e il primo amore Putt-Putt.

A un certo punto abbiamo iniziato anche a provare roba un po’ più d’azione. Ricordo con affetto la prima volta che le ho messo in mano il pad del Super Nintendo Mini ed era gasatissima per il semplice fatto che premendo un tasto faceva saltare Mario. Fast forward di qualche tempo e ci siamo messi a giocare assieme ai Kirby, agli Yoshi e a centomila altre cose, spaziando senza soluzione di continuità fra quasi tutte le generazioni del videogioco, dai 16 bit via via fino a oggi. E mi sono reso conto che molto, molto spesso, avevo la tendenza a giocare “da videogiocatore” più che da papà, a sapere cosa bisogna fare e a non avere molta pazienza nell’attendere i suoi tempi. A dirle che dovevamo andare di là, a infastidirmi se perdeva troppo tempo o se non mi ascoltava quando le chiedevo di fare qualcosa, rovinando per qualche istante la serenità e la gioia del momento. E giustamente, quando mi chiedeva una mano per affrontare i boss o i passaggi più complicati, ci pensavo io. Poi, col tempo, ha iniziato a provarci lei, su quei passaggi, e ogni tanto, con me ad assistere, il boss lo sconfiggeva lei. Ma ancora oggi, quando la situazione si fa complessa, chiede aiuto. Ha giocato per gran parte del tempo da sola a Donkey Kong Bananza ma sui boss ha sempre chiesto che ci fossi io a controllare Pauline per darle una mano (per fare quasi tutto, se siamo onesti) e nella parte finale mi ha ceduto direttamente il controllo di DK e si è presa lei Pauline.

Io oggi ho imparato a lasciare che sia lei a dettare i tempi del gioco, a lasciarla fare, a non forzare la mano, perché alla fin fine il punto è giocare assieme e trovare un equilibrio, ma soprattutto mi piace l’idea di lasciare che sia lei ad esplorare, a crearsi il suo modo di giocare, a scoprire le cose per i fatti suoi, senza l’assillo di un secondo giocatore che pretende di essere il primo. Ma ci ho messo un po’. E nel frattempo, chissà, forse il germe in testa glie l’ho infilato. Forse l’ho un po’ convinta che in certe cose si arrangi ma non sia all’altezza, che abbia bisogno di me e avrà sempre bisogno di me.

Forse questa mia presenza esagerata, magari anche un po’ eccessiva, oltre ad essere una cosa molto bella, è anche un po’ una stampella su cui appoggiarsi, una coperta di Linus che limita l’espressione e la capacità di sviluppare resilienza, e mica solo nei videogiochi. Ma qui e oggi di videogiochi si parla. Ma d’altro canto, in molte cose, la vedo esprimere una forza, una carica, tutto sommato anche un’arroganza enormi. Eppure, talvolta, ho l’impressione che riesca a farlo solo quando non sono più di tanto nei dintorni, quando non c’è, appunto, la stampella. Sarà per questo che quando gioca da sola è attratta soprattutto da un certo tipo di giochi che non offre sfida reale, solo lungo andare infinito? Oppure è roba che le piacerebbe comunque, perché è fatta così di natura? Vai a sapere.

Mamma mia quanto le piace Pauline. Mamma mia che bel sorriso che le si stampa in faccia ogni volta che lei e DK ballano assieme dopo aver completato una sezione del gioco.

Qualche anno fa, le ho fatto provare Minecraft su PC. Le è piaciuto subito, ci è andata sotto e ci ha giocato per un po’, ovviamente solo in modalità creativa, perché non vuole lo stress del dover sopravvivere. E manco so darle torto. Dopo un po’ l’ha perso di vista. Io? Io ho provato a entrarci ma non è mai stato cosa mia. Poi, qualche tempo dopo, le ho fatto provare Minecraft sul telefono, impazzendo per spostarci sopra la roba che aveva costruito. Ci è andata sotto abbestia, si destreggiava coi controlli touch, ha costruito piramidi interamente arredate, ha messo in piedi una specie di ranch enorme pieno di animali. Poi l’ha lasciato perdere per un sacco di tempo. Di recente l’ha ripreso in mano, ma era frustrata perché il telefono glie lo lasciamo usare relativamente poco, e quel poco tempo lo deve dividere anche con altre cose. Allora, siccome sono contento che giochi a Minecraft e lo preferisco rispetto a vederla giocare a tanta altra roba, s’è deciso di fare il grande passo e comprarlo su Switch 2 (e sono impazzito per spostarci sopra la roba che aveva costruito). E lì ha scoperto le meraviglie del gioco in split-screen, prima con la sua migliore amica, poi anche con me. Mi ha coinvolto e improvvisamente ho trovato la “chiave” per farmi entrare almeno un po’ in Minecraft: con i Joy-Con in mano, a gironzolare e costruire cose, con mia figlia che improvvisamente è diventata me. Ora è lei l’esperta, è lei che mi svela dove trovare le robe nell’inventario o nell’interfaccia, è lei che mi dà suggerimenti e solo saltuariamente le faccio notare io qualcosa che non sapeva o non aveva capito. E mi aiuta a costruire. L’altro giorno, mentre io posizionavo mura, ha assemblato la balconata di casa mia. Che bello. ♡

Costruire casa ascoltando Lava Chicken mentre il sole tramonta, le piccole soddisfazioni della vita.

“Vai a sapere”, il mio mantra, che torna sempre utile quando si tratta di fare il genitore, perché la verità è che è tutto un vai a sapere, un andare a braccio, per tentativi, un affidarsi magari a consigli, libri, testi, podcast, per trovare spunti, conferme, disillusioni, ma poi finire sempre nel gorgo appanicato di chi non sa cosa stia facendo. Io non lo so cosa sto facendo. Però mi piace farlo. E mi piace tantissimo giocare con lei. In questi giorni stiamo giocando anche a Lego Voyagers. Ogni tanto, non ce la faccio, sono io a suggerirle dove andare, cosa dobbiamo fare. Però cerco anche di lasciare che sia lei a raccogliere i pezzetti e a metterli in giro dove capita. E ci facciamo delle gran risate.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al multiplayer, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

Ottobre 1955: Rick Goodman

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