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Spec Ops: The Line: Sabbia negli occhi

Spec Ops: The Line: Sabbia negli occhi

C’è chi usa il marrone per coprire la povertà di idee (un saluto a Ghosts), e chi lo usa per farti del male. Spec Ops: The Line sceglie decisamente la seconda strada: ti piazza in una Dubai completamente sepolta dalla sabbia, non più luogo esotico ma un cimitero di miserie umane, e ti lascia sperimentare gli orrori della guerra, quella vera. Ti tira dentro con la promessa di un military shooter tranquillino e poi BOOM, va full Cuore di Tenebra/Apocalypse now e sono cazzi.

Walker, il protagonista, è il topos del soldato americano convinto di dover “aggiustare” il mondo. Il risultato è un grande classico: più cerca di sistemare le cose, più le distrugge. E tu con lui. Spec Ops è spietato perché non ti lascia la distanza comoda del giocatore: sei dentro la sua spirale distruttiva, complice e spettatore allo stesso tempo.

La scena del fosforo bianco è sicuramente la più emblematica del gioco: ti obbliga a usare armi chimiche su dei civili e poi ti sbatte in faccia le conseguenze. Non ci sono musiche epiche né “Mission Accomplished!”. Solo una montagna di cadaveri carbonizzati e uno strato di sabbia marrone che copre tutto. È l’unico shooter di quel periodo che ti guarda e dice: “Se te la mettiamo così non è così divertente, vero?”

“Le conseguenze”, immagine tragicamente attuale.

Il gameplay, onestamente, è quello di un cover shooter generico. Buono ma, appunto, generico. Solo che qui la monotonia è parte della tortura: ti costringe a premere il grilletto ancora e ancora, finché non capisci che sei tu stesso a tenere in vita l’incubo. La colpa non è mai davvero di Walker. È del giocatore. Sei tu che hai premuto il tasto, sei tu che hai creduto di non avere altra scelta quando invece l’hai sempre avuta. E quindi forse, parlando di guerra, ti fa rendere conto che l’unico vero modo per vincere è non giocare.

Spec Ops non rompe la quarta parete guardandoti fisso in macchina, lo fa scavandoti sotto i piedi, rendendoti non solo spettatore ma anche complice dei crimini che stai compiendo. Non c’è nessuna gloria né catarsi. C’è solo l’orrore marrone della guerra che ti entra dentro.

Il risultato è un gioco che molti hanno finito una volta e poi messo via, non perché brutto (anzi!) ma perché è difficile rigiocarci. Non è esattamente intrattenimento, è più simile a una ferita o a quella volta che decisi di fare le montagne russe più alte d’Europa: “Oh, son contentissimo di averlo fatto, ma non lo rifarei manco morto!”. È tipo Breaking Bad, almeno per me.

Che poi il marrone sarà pure lo stesso ma non è mica quella melma spiaccicata sull’obiettivo come in Ghosts. Qui la direzione artistica era superlativa!

All’epoca, Spec Ops: The Line non vendette neanche molto e c’era da aspettarselo. Il confronto con Ghosts, che sarebbe uscito un annetto dopo, dà l’idea di cosa si aspettassero i fan del military shooter fino a quel momento. Tuttavia il suo fallimento commerciale (oltre a essere largamente irrilevante quindici anni dopo) è il rituale di passaggio di buona parte dei titoli che cambiano la percezione di quello che si può fare con un videogioco. Fortunatamente i giochi di questo tipo tendono ad essere, sì, troppo scomodi per vendere milioni, ma anche troppo interessanti per essere ignorati.

Ed è per tutto questo che Spec Ops: The Line resta unico: non ti consola e fa di tutto per dirti che la guerra, quella vera, non è uno spettacolo. Ti lascia stanco, sporco e un po’ in colpa. Tutto il contrario di Call of Duty. Forse non sarà il gioco a cui vuoi rigiocare, ma è quello che ti resta addosso. Come la sabbia, appunto.

Questo articolo fa parte della Cover Story marrone, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

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