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Call of Duty Ghosts: il marrone come ideologia

Call of Duty Ghosts: il marrone come ideologia

Quando giopep mi ha chiesto di scrivere qualcosa a tema marrone non sapevo davvero cosa rispondergli. Poi, come un beffardo gioco del destino, mi son ritrovato sulla home page di YouTube un video saggio di Dan Olson/Folding Ideas che parlava di Call of Duty: Ghosts, a cui avevo giocato più o meno all’uscita, nel periodo in cui tutto sommato la campagna principale dei vari CoD me la giocavo anche solo per il gusto di sparare un po’. Quindi sappiate che questo articolo è in gran parte ispirato a e istigato da questo video. Andatevelo a guardare quando potete, ché Dan fa sempre fra le cose migliori che potete vedere su YouTube.

Premessa inutile ma doverosa, che sai mai che qualcuno non fosse vivo all’epoca: all’inizio degli anni Dieci, i videogiochi di guerra condividevano un tratto comune: il colore. Non era un colore drammatico, né iconico, né tantomeno realistico. Era il marrone. Un marrone opaco, tendente al grigio, che ricopriva indifferentemente deserti indistinti, muri di cemento generici e uniformi scolorite.

In teoria avrebbe dovuto evocare “realismo”: il terreno polveroso dell’Iraq, le macerie di città bombardate o l’atmosfera cupa di scenari post-apocalittici come già accadeva in Gears of War (che molti ritengono il capostipite visivo di questo trend). Ma nella pratica il marrone funzionava come scorciatoia visiva: una tinta piatta che riusciva ad uniformare tutto. Un po’ figlia di scelte tecniche (“Smarmellando tutto col marrone le limitazioni grafiche si vedono meno”), un po’ scelta artistica ma sempre con lo stesso risultato nella gran parte dei casi: annullare le sfumature della realtà.

Va là, quanto bel colore “sciolta dopo serata al messicano”.

Call of Duty: Ghosts (2013) è l’apoteosi di questo marrone fuori e dentro al metaforone che sto per proporvi. Già dalla prima missione sembra che il mondo intero sia stato immerso in un filtro seppia che vorrebbe evocare cinema ma invece invoca solo la merda. Il marrone diventa lo sfondo e al tempo stesso la sostanza: il linguaggio estetico di un’industria che ogni tanto smette di guardare al mondo che ha attorno per limitarsi a replicare sé stessa.

Ma il marrone non è solo una scelta grafica. È un colore politico. È lo spettro dell’ideologia che diventa tinta unita. Perché quel marrone che toglie i contorni al paesaggio serve anche a cancellare le persone che lo abitano. Tutto ciò che non è il protagonista americano diventa uno sfondo: opaco, indistinto e soprattutto sacrificabile.

Se l’aspetto del gioco è marrone, il cuore della sua narrazione è altrettanto monocorde. La premessa di Ghosts è un capolavoro di paranoia a stelle e strisce: una “Federazione” sudamericana riesce a costruire e lanciare nello spazio un’arma di distruzione di massa basata su barre di tungsteno orbitali. L’attacco è devastante: le città americane vengono distrutte e l’impero americano vacilla.

Ovviamente il pezzotto sudamericano dell’arma americana è molto più piccolo e molto meno potente.

Ora, potremmo soffermarci sul fatto che questa trama sia non solo improbabile, ma anche logisticamente ridicola: la tecnologia descritta richiederebbe risorse che nessuna alleanza latinoamericana potrebbe nemmeno sognare. Ma non è questo il punto.

Il punto è che Ghosts non racconta la geopolitica: racconta l’incubo americano ovvero la paura che l’America non sia più intoccabile e che “altri” possano ribaltare il tavolo. La “Federazione” è un’entità vaga, amorfa, mostrata nelle cutscene come un blob oscuro che tutto inghiotte e perlopiù utile solo come bersaglio narrativo. Non importa chi siano i suoi membri, quali siano le sue motivazioni o persino le sue facce. Ciò che conta è che non sono ammerigani. E quindi possono essere schiacciati sotto il marrone delle macerie.

Il titolo del gioco fa riferimento a una squadra d’élite, i “Ghosts”. Soldati americani straordinari, addestrati a combattere nell’ombra, capaci di ribaltare le sorti della guerra contro ogni probabilità. Una specie di Navy SEALs elevati a mito ectoplasmatico.

Sono, in sostanza, il sogno bagnato di un complesso militare che desidera eroi puri, immuni da dubbi e anzi dotati di un’aura di sacralità. Non sono personaggi ma archetipi.

Il loro compito non è difendere un mondo complesso e ricco di sfaccettature, ma semplificarlo al minimo necessario per non farsi troppe domande mentre si spara a questo o quel pupazzetto armato. In un universo narrativo dove le sfumature non esistono, i Ghosts non hanno bisogno di interrogarsi sulla moralità delle loro azioni: combattono, e tanto basta. Sono la versione anni Dieci del “buon americano” della propaganda, ripulito da qualsiasi contraddizione.

L’intera campagna pubblicitaria era stata incentrata sul cane e poi nel gioco finale compare in in paio di missioni al massimo. Yeeeehaw!

Così come il marrone livella i paesaggi, i Ghosts livellano la geopolitica. Non c’è società, non c’è diplomazia, non ci sono alternative: solo la necessità di combattere e di riaffermare l’America come centro del mondo.

A questo punto, il cerchio si chiude. Il marrone estetico e il marrone narrativo coincidono. Perché scegliere il marrone come colore dominante? Perché è comodo. Perché nasconde più che mostrare. Nel marrone tutto è già sfocato, indistinto, quindi non serve darsi pena a cercare di rendere credibile la ricostruzione di Caracas, di Bogotà o di Rio de Janeiro. Basta un fondale marrone, e il Sudamerica è già un posto lontano da qui, pronto a essere bombardato come tanti altri nella sanguinosa storia Americana.

Il marrone è il colore del sacrificabile e anche la tonalità morale con cui Ghosts dipinge chiunque non faccia parte dell’America vittima ed eroica. Ecco perché parlare di marrone significa parlare di ideologia: perché non è solo una scelta estetica pigra, ma una semplificazione funzionale delle sfumature del mondo.

Con il senno di poi, Call of Duty: Ghosts non è ricordato con affetto da nessuno. Non ha innovato, non ha lasciato un’eredità significativa e non è nemmeno diventato un cult, anzi. È rimasto come un punto morto: un monumento involontario alla saturazione del marrone e al nazionalismo videoludico.

Eppure, proprio per questo, resta importante. Perché mostra in modo cristallino il blocco creativo di un certo immaginario: quello di un’America incapace di pensarsi fuori dal ruolo di protagonista assoluta, e di un’industria che almeno all’epoca era incapace di raccontare la guerra se non come blockbuster a colori ridotti.

Giocare oggi a Ghosts significa guardare un cadavere in decomposizione. Non un ricordo glorioso e ancor meno un fallimento creativo interessante, ma una fra le prime prove del fatto che la corsa ossessiva al profitto per una delle serie più affermate di sempre l’avrebbe portata a una progressiva irrilevanza.

Se la guerra vera ha i colori del sangue, Call of Duty: Ghosts ha un solo colore: il marrone. Il gioco non racconta la guerra ma l’ennesima fantasia tossica: l’America come eterna vittima, il resto del mondo come fondale sacrificabile. In questo senso, il marrone non è un fallimento accidentale. È il colore preciso dell’ideologia che il gioco vorrebbe veicolare.

Questo articolo fa parte della Cover Story marrone, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

Silksong è morto!

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