La creazione di Gauntlet
A marzo del 2012, ero a San Francisco a seguire la Game Developers Conference assieme al prode Fotone, come del resto all’epoca raccontammo in apposito podcast. Come sempre accade quando ci si presenta in due e non in quattordici, dovemmo fare scelte toste nel decidere quali eventi seguire e rinunciammo a roba piuttosto interessante. Nello specifico che ci interessa oggi, a fronte dei Classic Post Mortem su Fallout e Alone in the Dark che riuscii a non perdermi, dovetti rinunciare a quelli su Harvest Moon e Gauntlet. Ma questo mese c’abbiamo la Cover Story dedicata al multiplayer per onorare i quarant’anni del classico di Atari e m’ha punto vaghezza di esplorare i meandri della rete per recuperarmi la registrazione di quel Post Mortem e fare qui uno dei miei soliti riassuntoni. Agevolo comunque più in basso il video completo, dato che (1) magari preferite ascoltare la viva voce di Ed Logg, (2) per ampi tratti il giovine si sofferma su dettagli tecnici che io riassumerò in maniera molto concisa dato che non ci capisco nulla e (3) sorvolo anche su altri aneddoti e cosette che racconta, come mi pare normale.
Oggi Gauntlet ha quarant’anni, ma nel 2012, quando Logg ha raccontato la sua creazione, ne aveva “appena” ventisei. Logg era entrato in Atari nel lontano febbraio del 1978 e si recava quindi quotidianamente nella luminosa Sunnyvale per lavorare su robetta tipo Breakout, Asteroids, Centipede, Video Pinball, Millipede e, appunto, i due Gauntlet. La sua carriera l’avrebbe poi portato a lavorare in Electronic Arts per qualche mese, prima di tornare in Atari e restare lì fino ai tempi della serie di San Francisco Rush su Nintendo 64: “Sono letteralmente l’ultimo programmatore che è stato licenziato da Atari quando hanno chiuso i battenti.” Insomma, le ha viste tutte.
Ed Logg sul palco della GDC.
Ma l’epoca di Gauntlet era ovviamente molto diversa da quella attuale. Il contesto era quello delle sale giochi, di video game pensati per essere gettati in pasto a un pubblico da convincere a scucire monetine, per i quali era fondamentale la fase di test sul campo, coi giochi messi alla cieca in locali e bar per capire quale fosse il loro potenziale commerciale. “Direi che il 60% dei giochi che sviluppavamo veniva bocciato in quella fase. E di quelli che la superavano, probabilmente solo il 10% finiva per ottenere un successo commerciale adeguato.”
All’epoca, il mercato girava attorno agli operatori: i clienti di Atari non erano i videogiocatori, come accade oggi, ma i distributori, che a loro volta vendevano agli operatori, ai gestori delle sale giochi e dei bar e locali che avrebbero ospitato i cabinati. Di tutte le monetine che il me ragazzino infilava nelle apposite fessure, insomma, Atari non ne vedeva mezza, e men che meno arrivavano a Ed Loog. Inoltre, il mercato era minuscolo, rispetto agli standard attuali: Super Breakout vendette diecimila unità. Giochi come Space Invaders o Asteroids piazzarono cifre significativamente più alte, ma si rimaneva comunque nel reame delle centinaia di migliaia di pezzi venduti. E poi ci fu il crash del mercato americano del 1983 e la successiva contrazione del settore arcade nel 1984, dovuta in parte anche all saturazione del mercato e alla conseguente difficoltà di vendere nuove macchine. Alle difficoltà del mercato, tra l’altro, aveva contribuito anche il posizionamento fisico delle macchine. A fine anni settanta, i video game andavano soprattutto nelle sale giochi. Ma piano piano contesti come bar, ristoranti, centri commerciali presero il sopravvento e nel 1983 costituivano la maggior parte del settore. Solo che, arrivati al 1985, non era più possibile piazzare nuove macchine in quel tipo di contesto, perché i margini di ritorno per gli operatori e i proprietari dei locali erano molto bassi e quindi bisognava conservare una macchina a lungo per rientrare dell’investimento.
In quegli anni, le idee per la creazione di un videogioco potevano nascere in vari modi. C’erano sessioni di brainstorming, che secondo Logg fruttavano molto raramente, ma ogni tanto generavano qualche perla, come per esempio Centipede. Poi c’erano le idee proposte dai dirigenti, e fu così che nacque Asteroids. Ma nella maggior parte dei casi, erano i programmatori stessi a ideare i giochi e spesso queste idee nascevano sotto forma di sfide di programmazione. Per esempio, Zybots nacque dal fatto che Logg voleva provare a creare un FPS nonostante non avesse accesso a un hardware dedicato per i bitmap. Era una sfida con se stesso. Nel caso di Gauntlet, l’idea arrivò dal figlio di Logg, che era un grande appassionato di Dungeons & Dragons e chiedeva al padre di crearne una versione videoludica, ma per un anno intero Ed non riuscì a capire come avrebbe potuto soddisfare questo desiderio. Poi giocò a Dandy su Atari 800.
Il 30 settembre del 1983, Logg e Robin Ziegler iniziarono ufficialmente i lavori di design. L’idea principale che “rubarono” a Dandy fu quella del generatore di mostri. Ma nel gioco c’erano anche porte da aprire, chiavi e tesori, tutte cose che si potevano trovare in una sessione di Dungeons & Dragons. Il cast dei quattro personaggi venne definito abbastanza in fretta, anche se alcune sfumature cambiarono nel tempo. Ed era fondamentale che i quattro personaggi fossero ben assortiti e invitanti, perché il punto del gioco era convincere quattro persone ad affrontarlo assieme, cosa che in teoria poteva costituire anche un’ottima mossa sul piano commerciale. Nel 1985, il settore era in difficoltà anche a causa del suo essere incentrato sulla moneta da 25 cent come obolo da pagare per una partita che sarebbe andata dai novanta secondi ai due o tre minuti. Era necessario far fruttare di più i giochi, ma provare a chiedere 50 centesimi, o addirittura un dollaro, non aveva funzionato. Beh, Gauntlet poteva essere la risposta: un gioco a cui giocano quattro persone contemporaneamente, spendendo quindi un dollaro, per una partita che dura comunque un paio di minuti. Significa generare enormemente più profitto di qualsiasi altro gioco sia sul mercato. Inoltre, i giocatori potevano uscire o entrare in partita in qualsiasi momento, non bisognava aspettare il termine della partita e l’avvio di una nuova, quindi il gioco poteva andare avanti all’infinito con un continuo afflusso di monete.
In Gauntlet, se si giocava con alcuni personaggi (nell’immagine indicati con i nomi provvisori durante lo sviluppo), c’era una tecnica che permetteva di proseguire sostanzialmente all’infinito e Atari cercò di attenuarla con degli aggiornamenti che riducevano la quantità di cibo. Questa tecnica venne scoperta in Giappone, dove “Se qualcuno vuole giocare da solo, è considerata buona educazione non entrare nella sua partita come si fa dalle nostre parti. E questo permise alla gente di sperimentare molto di più sul single player.”
La coppia di sviluppatori dovette anche ragionare su scelte difficili dal punto di vista del design dell’hardware. In quel periodo, stava prendendo piede l’utilizzo della risoluzione media, che sicuramente rendeva i giochi più gradevoli all’occhio ma rendeva anche l’hardware più costoso, di almeno 300 dollari. Inoltre, iniziavano a diffondersi i monitor a 25 pollici, che ovviamente erano più costosi e, in quanto tecnologia nuova, meno affidabili. Per tutta la durata dello sviluppo, l’idea fu di usare un monitor a 25 pollici, ma alla fine venne montato un 19 pollici. In generale, come sempre accadeva a quei tempi in cui creare un gioco significava anche pianificare l’hardware su cui avrebbe girato, Logg e il suo team dovettero prendere molte decisioni difficili, ma poterono anche appoggiarsi su nuove tecnologie e investimenti significativi. In particolare, Logg ricorda di aver avuto accesso, per Gauntlet, a un sistema audio mai visto prima. Si appoggiava su un processore dedicato, conteneva un sintetizzatore FM e, per la prima volta, un chip per inserire il parlato digitalizzato. E includeva anche un chip pokey, “lo stesso utilizzato su Atari 800 e 400”, che serviva non solo per gestire gli effetti sonori, ma anche per ragioni di sicurezza, per impedire che il gioco venisse copiato. Un problema arrivò dalle dimensioni della scheda, esagerate, cosa che venne risolta strutturandola su quattro strati sovrapposti, un’idea venuta proprio a Logg e che contestualmente fu una discreta innovazione, poi riutilizzata per tutti i giochi successivi.
Ma se i lavori sul gioco erano iniziati nel 1983, come mai Gauntlet uscì solo nel 1985? Beh, in Atari ci furono dei licenziamenti e inoltre Robin Ziegler, l’ingegnere che doveva occuparsi dell’hardware per il gioco, venne messo a lavorare su Indiana Jones and the Temple of Doom, mentre a Logg venne affidato Roadrunner. Per questo i lavori su Gauntlet ripresero solo nel 1985, con Pat McCarthy come ingegnere e un team composto da due programmatori, quattro grafici e un ingegnere, un tecnico e tre specialisti audio. Nel mentre, il progetto continuava ad evolversi, a cominciare dal nome: in origine, l’idea era di chiamarlo Dungeons e, racconta Logg, nel codice sorgente si può trovare ancora una cartella chiamata “DND”. Ma diciamo che questa linea di pensiero venne sconsigliata dagli avvocati di Atari. Per questo si decise di andare con Gauntlet.
Un tema di discussione, durante lo sviluppo, fu la scelta di avere un gioco pensato per quattro giocatori, per esempio perché il reparto marketing non era convinto che fosse possibile convincere quattro persone a giocare assieme. Sul piano tecnologico, bisognava decidere come gestire l’inserimento dei gettoni e la presenza degli slot separati. Da questo punto di vista, si optò per la linearità: ogni slot corrisponde a un personaggio, se vuoi giocare con quel personaggio devi mettere la monetina da quella parte. Bisognava anche capire come gestire il posizionamento e lo spostamento dei personaggi sulla mappa, facendo in modo che non potessero mai uscire dall’inquadratura e finire ammazzati alla cieca, ma anche curando lo spostamento della telecamera sulla mappa in una maniera che avesse il maggior senso possibile per tutti i partecipanti.
Non fu semplice neanche creare l’algoritmo delle collisioni, come è facile intuire se pensiamo che il gioco prevedeva situazioni con mille oggetti in movimento. Parte del trucco fu la scelta di far effettivamente muovere solo gli oggetti che erano visibili a schermo. Ma ci furono anche decisioni più legate al gameplay, per esempio nell’idea di favorire la cooperazione facendo in modo che i personaggi attirassero i nemici e potessero fare da esca, per condurli davanti alle armi spianate dei compagni. Inoltre, Logg scelse di avere un sistema di controllo il più semplice possibile, in contrasto per esempio con quello a due leve di Robotron, e per questo decise che si poteva sparare solo da fermi, direzionando lo sparo con il joystick, cosa che costringeva anche a prendere delle decisioni tattiche sul posizionamento.
Al termine dello sviluppo, il team aveva messo assieme cento livelli e Logg dovette trovare un sistema per comprimerli, dato che non aveva modo di ottenere della ROM extra in cui immagazzinarli. Ideò un algoritmo a suo dire piuttosto semplice, che per altro anni dopo venne scovato da un utente che aveva disassemblato il codice, recuperato l’algoritmo e creato una sua versione di Gauntlet con livelli esclusivi. Quei cento livelli, comunque, non segnavano la fine del gioco. Una delle discussioni col reparto marketing, infatti, verteva sul fatto che Gauntlet non aveva una fine, era teoricamente possibile continuare a giocare all’infinito. L’idea di Logg era che non voleva rubare soldi a un giocatore interrompendogli all’improvviso la partita. La sostanza, comunque, è che potevi teoricamente giocare per sempre, auspicabilmente continuando a infilare monetine. Una volta che erano stati completati tutti i livelli, il gioco iniziava a proporteli per esempio ribaltati in orizzontale o in verticale.






Le fasi di testing e i focus group per Gauntlet andarono alla grandissima, con i giocatori che davano voti altissimi e un partecipante che sosteneva di aver speso sul gioco cinquanta dollari in un’unica sessione. Ci fu però anche qualche problema, in particolare quando, nel giugno del 1985, Logg decise di interrompere un test pubblico e ritirare il gioco perché aveva visto David Rosen, il presidente di Sega, insieme ad altri dirigenti dell’azienda e ad alcuni tecnici giapponesi che studiavano Gauntlet e scattavano fotografie. “Ops!” In ogni caso, Gauntlet riscosse un successo clamoroso, succhiando monetine a un ritmo visto molto di rado, chiaramente grazie alla sua natura multiplayer e all’enfasi che veniva posta sul continuare a infilare soldi per proseguire nell’avventura. A settembre del 1985, in una singola sala giochi, Gauntlet generava oltre mille dollari d’incasso a settimana, vale a dire circa un quarto delle monetine che venivano spese in tutti i giochi del posto. Eppure, aggiunge Logg con una nota di tristezza, Gauntlet non venne acquistato dai distributori in quantità proporzionalmente adeguate a quanti più soldi generava rispetto ad altri giochi. Forse, il problema è che il mercato era ormai già fin troppo in declino e mancava la fiducia.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al multiplayer, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.