Oz è un buco nero infernale da cui non esce nessuno
“Oz è dove vivo. Oz è dove morirò” – Augustus Hill
Ricordo bene il mese di settembre dei primi anni duemila. L’estate finiva, il caldo finalmente se ne andava e si riprendeva lentamente con la solita routine. Gli esami universitari incombevano, ma le lezioni e la vita quotidiana da pendolare erano ancora relativamente lontane. Anche le emittenti televisive riprendevano la loro regolare programmazione abbandonando repliche e tutto ciò che riemergeva come fondo di magazzino per riempire le serate estive, notoriamente scarseggianti di spettatori. In quel periodo alcune reti, fra cui la sempreverde Italia Uno, avevano visto lungo puntando sulle nuove serie televisive americane, che stavano abbandonando quella forma un po' ingenua e buonista di fine anni ottanta in cui i buoni senza macchia e senza paura trionfavano su cattivi macchiettistici e tagliati con l’accetta. Era giunto ormai il momento di affrontare temi adulti, maturi e forse anche un po' scomodi. I protagonisti poi, avevano abbandonato i panni degli eroi classici per abbracciare una natura ambigua, chiaroscura, sempre in bilico fra bene e male, con questo lato spesso prevalente sul resto.
HBO aveva dato il via al nuovo corso delle serie TV, con prodotti come The Wire, I Soprano e Oz.
Oz sbarcò qui in Italia, in chiaro, esattamente vent’anni fa: nel settembre 2005 Italia Uno aveva messo in palinsesto un’intera serata dedicata alle serie televisive di stampo poliziesco o criminale (mi pare si chiamasse proprio “serata crime” o “Italia Uno Crime”. O qualcosa del genere) con l’immortale C.S.I., The Shield e appunto Oz.
Oz, abbreviazione di Oswald State Penitentiary, è un penitenziario di massima sicurezza in cui sono rinchiusi i peggiori criminali presenti negli Stati Uniti. La serie racconta le vicende dei detenuti rinchiusi in un braccio sperimentale denominato “Il Paradiso” (anche se il nome in lingua originale è Emerald City, come ne Il Mago di Oz) dove i detenuti hanno molta più libertà: dormono in celle con pareti trasparenti in plexiglass al posto delle sbarre e durante il giorno sono liberi di circolare per il braccio. Guardano la TV, giocano a carte e a scacchi, possono usare PC con accesso a Internet e svolgono lavori in aree quali cucina, infermeria, sartoria e biblioteca. Tim McManus, dirigente carcerario e creatore de Il Paradiso, spinge anche i detenuti a riprendere gli studi, in modo da conseguire almeno il diploma e poter ottenere un lavoro una volta fuori.
Paradossalmente, per i detenuti presenti in Paradiso, la vita è tutt’altro che rosea: nonostante i buoni propositi di reinserimento nella società e la presenza delle guardie ventiquattrore su ventiquattro, Oz è un girone dantesco in cui i protagonisti, volontariamente o meno, hanno a che fare quotidianamente con violenza, omicidi e droga. All’interno del penitenziario sono presenti varie fazioni, fra cui gli ariani, pericolosi e violenti nazisti, gli zombi, detenuti afroamericani dediti allo spaccio di stupefacenti, i musulmani, gli italiani (un filo stereotipati con le tute in acetato e i capelli impomatati), gli ispanici, e altri detenuti non appartenenti ad alcuna fazione. Ogni fazione ha un leader, che dirige gli “affari” del gruppo e pianifica le mosse contro le fazioni rivali per i propri interessi personali. Come sottolineato poco sopra, la violenza è la caratteristica principale della quotidianità in Oz. Percosse, sangue, omicidi e abusi sono presenti praticamente in quasi tutte le puntate della serie, e nessuno ne è immune. Anche chi non ha affari in corso in prigione o vendette personali si trova davanti a due opzioni: subire o provare a difendersi. Non ci sono alternative.
Ogni puntata viene aperta e chiusa da quello che viene identificato come il narratore della serie, Augustus Hill, uno dei detenuti, divenuto paraplegico dopo il suo arresto. Hill introduce i temi dell’episodio e via via i nuovi detenuti che approdano nel penitenziario, specificando, tramite flashback, il motivo per cui sono stati arrestati e il tipo di condanna.
Oz ospita alcune fra le personalità criminali peggiori in assoluto, gente che non vorresti incontrare mai, nemmeno per caso: dal malvagio suprematista ariano Vern Schillinger al brutale, folle e imponente Simon Adebisi, passando per il machiavellico manipolatore Ryan O’Reilly, quello che è da molti considerato il personaggio migliore della serie. Anche detenuti calmi e inoffensivi come l’ex avvocato Tobias Beecher e l’anziano Bob Rebadow mostrano il loro lato oscuro nel corso della serie. Beecher, a seguito dei ripetuti abusi e umiliazioni subiti da parte di Schillinger, diventa una persona completamente diversa, vendicandosi in maniera altrettanto violenta nei confronti del leader ariano, con il quale intraprenderà una vera e propria faida personale durante tutta la serie, che coinvolgerà anche i membri delle rispettive famiglie. Dagli abissi di Oz non si salva proprio nessuno, nemmeno i personaggi che non sono detenuti, e che dovrebbero, in teoria, essere le figure positive dello show: il direttore, Leo Glynn, da integerrimo uomo di legge diventa un politicante che arriva a usare i propri drammi familiari per fare carriera, la dottoressa Gloria Nathan arriva ad amare il detenuto che ha provocato la morte del marito e sorella Peter Marie, suora e psicologa del penitenziario, che decide di rinunciare ai voti a seguito dei ritrovati desideri sessuali. Un manipolo di personaggi, a conti fatti, totalmente detestabili e per i quali non si può provare empatia: non per i detenuti, senza possibilità di redenzione e senza morale alcuna, non per chi il carcere lo dirige o ci lavora, in quanto dimostrano spesso una profonda ipocrisia e cattiveria.
La serie creata da Tom Fontana è fin troppo esplicita nel mostrare tutto, senza censura alcuna, tanto che alcune scene sono talmente disturbanti da rasentare il disgusto e conseguente sguardo distolto dallo schermo da parte dello spettatore. Personaggi che lentamente perdono dignità, moralità, e quel briciolo di umanità che ancora potevano avere. Un dramma carcerario molto crudo che scava in maniera approfondita anche nella psiche della maggior parte dei personaggi, condannati a vivere in una sorta di buco nero nel quale vengono trascinati a fondo e dal quale non usciranno mai. Chi entra ad Oz ne può uscire solo da morto, e quei pochi che ne escono vivi finiscono con il ritornarci.
“La morte è meglio di qualsiasi giorno ad Oz.” – Ryan O’Reilly
Oz ha goduto di tre stagioni, delle sei totali, molto buone dal punto di vista narrativo, con alcuni dei personaggi principali molto ben scritti e una sapiente costruzione delle varie storyline. Il declino della serie è iniziato a partire dalla quarta stagione, o meglio, dalla seconda parte della quarta stagione: tutte le stagioni di Oz sono composte da soli otto episodi di circa un’ora, ma la quarta stagione è composta da sedici episodi, di cui la seconda metà per riempire il palinsesto HBO a causa della messa in pausa de I Soprano. Ma quel voler diluire così tanto quella stagione non ha fatto bene alla serie, che ha visto l’introduzione di trame assolutamente ridicole come la pillola che invecchia (una sorta di esperimento del governo che consentiva ai detenuti che avessero aderito di uscire prima, a patto di assumere un farmaco che ne accelerasse l’invecchiamento) e l’introduzione di molti, forse troppi, nuovi personaggi, poi scartati dopo una manciata di episodi. Non sono mancate altre situazioni assurde quali un tentato omicidio da parte di un personaggio vestito come Travis Bickle di Taxi Driver e la progettazione di una bomba per far esplodere il carcere. Una sorta di temporaneo abbandono del realismo per abbracciare elementi bizzarri francamente fuori contesto. La serie ritorna parzialmente in carreggiata nelle ultime due stagioni ma la stanchezza nella scrittura è evidente, e probabilmente non c’era davvero molto altro da raccontare per tenere in piedi lo show.
Nonostante la maggior parte dei fan della serie non abbia apprezzato il mutamento da dramma carcerario che paventava pretese di realismo in una sorta di soap opera che sfocia nel bizzarro (non mancano momenti di questo tipo nelle ultime due stagioni, come un musical fra i due arcinemici Beecher – Schillinger e il guru predicatore Cloutier che dopo essere miracolosamente sopravvissuto a un’esplosione ed essere rimasto sfigurato appare in maniera onirica in sogno ad alcuni detenuti, per poi scomparire senza una spiegazione logica), alcuni critici americani hanno sottolineato come Oz in realtà non abbia mai voluto essere qualcosa di verosimile (infatti in nessuna prigione al mondo sarebbero giustificabili tutti gli omicidi compiuti all’interno del fittizio penitenziario di Oswald) ma vada invece visto come una sorta di teatro dove una serie di personaggi racconta la propria storia. Augustus Hill, il “cantastorie” della serie, al termine del suo ultimo monologo, pronuncia le seguenti parole:
“Un uomo vive in prigione, e muore in prigione. Come muore, è semplice. Chi e perché sono gli elementi complessi”. - Augustus Hill
L’ultimo episodio della serie sembra sostenere solidamente questa tesi, mettendo al centro della narrazione una rappresentazione del dramma shakespeariano Macbeth da parte dei detenuti, e lo stesso titolo originale dell’episodio, Exeunt Omnes, è un termine utilizzato per indicare quando tutti gli attori di una rappresentazione teatrale abbandonano il palcoscenico.
Oz non ha avuto un rapporto facile con il nostro paese: le prime tre stagioni sono state trasmesse in chiaro su Italia Uno praticamente dopo la mezzanotte, cosa che non ha salvato la messa in onda dai consueti tagli e censure per prodotti di questo tipo. La quarta stagione è stata trasmessa solo dalle pay TV, mentre la quinta e la sesta sono rimaste inedite nel nostro paese fino al 2017, ben quattordici anni dopo la fine della serie. Io stesso ho visto interamente tutta la serie solo un paio di mesi fa, dopo essermi fermato alla terza ai tempi della messa in onda, quando mi sono deciso a sborsare ulteriori quattrini per abbonarmi a Paramount Plus in vista di Dexter Ressurrection.
Oz è una serie non invecchiata benissimo ma assolutamente fondamentale fra quelle che hanno contribuito a cambiare la narrazione televisiva. Nonostante i tanti anni sul groppone, si lascia guardare (anche se guardarla tutta di filato può risultare abbastanza pesante), e mi sembra strano che nessuno abbia ancora pensato di tirar fuori l’ennesimo revival o reboot (anche se Tom Fontana ha realizzato un corto intitolato Zo con Dean Winters e Lee Tergesen, gli interpreti di Ryan O’Reilly e Tobias Beecher, che si parlano telefonicamente dopo essere tornati in libertà dopo una lunga detenzione).
Qual è il collegamento di Oz con la cover story marrone di questo mese? Beh, al termine della prima stagione, dopo le numerose angherie subite da parte di Schillinger, Beecher tira fuori gli attributi e, dopo averlo riempito di botte in palestra, gli defeca in faccia. Chapeau.
Questo articolo fa parte della Cover Story marrone, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.