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Red Eye è un sottile gioco fra gatto e topo

Red Eye è un sottile gioco fra gatto e topo

Qualche minuto dopo aver rivisto Red Eye in occasione di questo pezzo, ho realizzato il fatto che il cinema di Wes Craven, nonostante sia abbastanza lontano dai miei gusti, mi ha accompagnato per almeno due terzi della mia vita.

Ho odiato il cinema di Wes Craven, perlomeno all’inizio. Da bambino, Freddy Krueger mi terrorizzava a morte. Quell’essere sfigurato dotato di lame affilate che uccideva in maniera così sadica mi sembrava il frutto di una mente altrettanto perversa. Quale persona poteva concepire un personaggio così? Ogni volta che Italia Uno trasmetteva la saga di Nightmare (generalmente d’estate, in occasione del famoso ciclo “Notte Horror”) spegnevo regolarmente la televisione, sia mai avessi cambiato canale per sbaglio.

Crescendo, poi, fortunatamente le cose cambiarono. Scream (qui il Popcorn acconcio) e i suoi seguiti hanno fatto parte della mia filmografia adolescenziale, e tutto quel sangue (finto) versato a destra e a manca non mi ha mai infastidito (erano, tra l’altro, gli anni dei vari Resident Evil e compagnia bella, tanto per fare un allineamento cinematografico-videoludico), si trattava di pellicole che, se guardate in compagnia, finivano per essere un divertimento ed esorcizzavano qualunque paura recondita.

Negli anni post-adolescenziali, sono riuscito finalmente a venire a patti con l’ex giardiniere di Elm Street e a guardarmi tutta la saga (a spizzichi e bocconi, in fondo mi ero formato vedendo gli horror all’acqua di rose degli anni novanta e primi duemila) fino ad affrontare coraggiosamente anche la visione di Le colline hanno gli occhi e L’ultima casa a sinistra, che erano forse anche più disturbanti di un Nightmare qualunque. Leggendo una vecchia intervista a Craven, ho poi compreso, finalmente, che quella cruda efferatezza mostrata nei suoi film non era fine a sé stessa ma cercava di mostrare l’orrore in maniera diversa, diretta, realistica, senza filtri, perché, come disse lui in quell’occasione, l’orrore si nasconde nel quotidiano, cova nel profondo e può risvegliarsi in qualunque momento, afferrandoti per le viscere e mostrandotele dopo avertele strappate dal corpo senza tanti completamente. Ho fatto definitivamente pace con lui quando ho scoperto aver diretto diversi episodi di Ai Confini della Realtà, una di quelle serie che ho nel cuore e di cui sento disperatamente il bisogno di un’edizione in blu-ray con audio in italiano.

Tutta questa lunga e inutile divagazione per arrivare finalmente all’oggetto di questo pezzo, quel Red Eye che avrebbe dovuto rappresentare un’interessante variazione sul tema, passando dal porto sicuro degli horror e degli slasher di cui Craven conosceva ben più che le regole fondamentali, per passare al terreno sconosciuto del thriller psicologico. Lisa Reisert, una giovane dirigente del lussuoso hotel Lux Atlantic, deve far ritorno a Miami dopo aver partecipato al funerale della nonna, e si imbarca su un volo notturno (da qui deriva il titolo del film, in quanto gli occhi rossi sono quelli dei passeggeri che evidentemente perdono il sonno viaggiando di notte), dove conosce Jackson Rippner, un affascinante coetaneo dallo sguardo magnetico e dall’aria misteriosa. Fra i due sembra scattare la scintilla, ma presto la verità viene a galla: il loro incontro non è stato casuale, in quanto lui fa parte di un gruppo terroristico che ha come obiettivo l’eliminazione di Charles Keefe, noto politico che sta per alloggiare proprio al Lux Atlantic, l’albergo in cui lavora Lisa. Il ricatto di Jackson è molto semplice: se Lisa vuole salvare la vita a suo padre, tenuto d’occhio da uno dei terroristi, dovrà fare in modo di far alloggiare il politico in un’altra stanza, in modo da rendere più semplice l’eliminazione. Una sola telefonata in cambio della vita del padre. Da qui comincia il gioco fra gatto e topo fra la vittima e, diciamo così, il suo “carceriere”: Nonostante sia circondata da gente, Lisa non può muoversi o urlare, e lo spazio angusto dell’aereo, luogo in cui si svolge la parte principale del film, funge da prigione. Proprio in questa parte emerge l’essenza del film, quella tensione derivata da spazi claustrofobici e dal veloce scorrere del tempo, in cui, in un clima di tensione serrata, i due protagonisti abbandonano le maschere per rivelare la loro vera natura: Lisa è una donna che, a causa di un trauma passato, è diventata solitaria e ha dovuto imparare a gestire la propria insicurezza e fragilità, mentre Jackson, dietro la facciata dell’uomo ironico e sicuro di sé nasconde un manipolatore freddo e senza alcuno scrupolo.

Red Eye è un film dai due volti: se la prima parte, quella sopra descritta, funziona più che bene, purtroppo non si può dire altrettanto per la seconda, in cui si passa da una guerra di nervi psicologica ad un vero e proprio scontro fisico fra i due una volta scesi dall’aereo, che li vedrà accapigliarsi a casa del padre di Lisa, con un epilogo più che prevedibile. Malauguratamente la tensione palpabile costruita nella prima parte va a sgretolarsi nella seconda, che, nonostante l’azione messa in mostra, sembra incredibilmente svogliata e anche tirata un po' via per chiudere il tutto, forse un po' frettolosamente, tra l’altro senza neanche mostrare un pizzico di quella violenza che ci si aspetterebbe da uno dei maestri dell’horror.

Nonostante non sia un film memorabile, Red Eye rimane legato a un mio personale ricordo di molti anni fa: in occasione dell’uscita nelle sale, mi pare nell’autunno del 2005, in un cinema dell’hinterland milanese era possibile assistere a una sorta di proiezione riservata, con circa una trentina di posti disponibili. Io ci finii un po' per caso, perché un mio conoscente, che lavorava come maschera proprio in quel cinema, aveva un biglietto che avrebbe voluto rivendere, ma non trovando nessuno interessato alla fine me lo regalò. Il motivo della riservatezza della proiezione era legata alla comparsa, alla fine del film, di Jack Scalia, uno dei protagonisti della pellicola. Qui apro una piccola parentesi: chi non è proprio di primo pelo come me, si ricorderà senz’altro di Tequila & Bonetti, una serie americana andata in onda nei primi anni novanta che vedeva come protagonista il detective italoamericano Nico Bonetti – interpretato proprio da Scalia – e un cane bruttarello di nome Tequila, di cui lo spettatore poteva sentire i pensieri, che nel doppiaggio italiano erano affidati alla sapiente voce del bravissimo Ferruccio Amendola. La serie non è che fosse poi chissà cosa, e Nico Bonetti, nonostante la simpatia e il buon cuore, era uno stereotipo ambulante dell’italoamericano con i capelli imbrillantinati sempre intento a mangiare spaghetti al pomodoro ascoltando musica lirica, ma qui in Italia ebbe un discreto successo tanto da crearne una sorta di seguito prodotto da Mediaset, che però non ebbe fortuna, esattamente come la serie originale, che in madre patria era durata una dozzina di episodi. In quell’occasione fu possibile formulare una domanda all’attore ed io presi coraggio e gli chiesi se aveva intenzione di girare una terza serie di Tequila & Bonetti, provocando qualche risatina di sottofondo fra il pubblico. La mia domanda causò un lieve disappunto nella persona che, diciamo così, conduceva la serata, in quanto sarebbe stata più opportuna una domanda legata al film (in cui Scalia interpretava il politico Keefe, ma era un ruolo praticamente marginale). Scalia però si rivelò molto disponibile e colse l’occasione per raccontare le sue esperienze di vita qui in Italia, dal periodo in cui viveva a Milano e lavorava come modello per grandi marchi fino alla sua esperienza romana per girare la seconda serie della fiction in questione, in cui fu prevedibilmente colto dall’amore per il cibo e le donne italiane, per lui le più belle del mondo. Un tipo decisamente simpatico, purtroppo con una carriera abbastanza modesta, fatta soprattutto di film a basso costo prodotti per il circuito home video.

Wes Craven se n’è andato dieci anni dopo l’uscita di Red Eye senza più mettere la firma su nulla di rilevante, vivendo soprattutto di rendita come produttore dei moderni remake di alcuni dei suoi film più famosi. Ma la sua impronta nel cinema rimane profonda e incancellabile, anche per chi ha visto agitare i propri sonni dalle sue opere come è accaduto a me.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle gioie del volo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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