Outcazzari

Non e' che non apprezzi l'online, e' che lo schifo proprio!

Non e' che non apprezzi l'online, e' che lo schifo proprio!

Se c’è una cosa nei videogiochi del 2025 che proprio non mi attira è il multiplayer online; l’ho sempre rifuggito sin dagli albori della modalità. Non sono mai stato un amante della competitività videoludica, ho sempre preferito la cosiddetta “couch co-op” piuttosto che un PvP volto a primeggiare sugli altri, infatti rimpiango il fatto di non avere vicino gente per giocare a titoli come It Takes Two o Split Fiction, potendo così riassaporare quelle emozioni provate in gioventù, quando con i miei amici o cugini giocavo “in due” al Megadrive o alla prima PlayStation.

Non dico di non aver mai fatto partite in doppio ad altri picchiaduro come Tekken 3, Dragon Ball Z: Budokai 2, giochi di “guida” come Crash Team Racing o i vari Mario Kart, o sportivi come i FIFA o gli ISS PRO o i PES, ma una condizione doveva essere sempre la stessa, ovvero che il mio avversario fosse seduto di fianco a me. Infatti partecipai pure a un torneo estivo e mi piazzai pure bene (primo a V-Rally 2 e secondo a FIFA2000), ma si trattava pur sempre di scontri faccia a faccia. Rimaneva il fatto che per il mio gusto personale il massimo era poter giocare insieme a qualcuno avendo un obiettivo comune, cercando di portare l’avventura a termine con una simbiosi perfetta (o quasi). Perciò sono tre i giochi di cui vorrei parlare, quelli che più mi hanno lasciato un gran ricordo di quella modalità e di quei momenti.

Golden Axe II (1991, Mega Drive)

Era uno di quei titoli che consumai ai tempi, soprattutto giocato con qualcuno al mio fianco; ricordo come fosse ieri le litigate per la scelta del personaggio, perché nel 1992 con una società democristiana ormai prossima alla fine per via dell’inchiesta di “Mani pulite”, durante Tangentopoli, per un bimbo di 6 anni (o poco più) scegliere il barbaro era l’unica opzione disponibile; forse poteva essere concesso il nano, esclusivamente per via di quell’ascia bipenne tanto maschia, ma mai si sarebbe potuta selezionare l’amazzone.

Il barbaro, il nano o l’amazzone: fai la tua scelta, io la mia l’ho già fatta.

Che cosa sessista, direte voi, e non posso darvi torto, ma essendo il fato qualcosa d’incontrollabile, col senno del poi mi trovai a scegliere sempre quel personaggio, perché quando scoprii che era quella con la magia più tosta non potevo fare altrimenti: parliamoci chiaro, una fenice di fuoco che carbonizzava tutti i nemici all’istante, nessuno degli altri due protagonisti aveva una cosa del genere. Questo fece in modo che le faide durante la selezione iniziale si riducessero sempre più velocemente, l’unico ostacolo rimaneva costantemente quello delle cavalcature, dove non c’era mai unanimità su chi dovesse montare in sella al chicken-leg (un abominio formato da un becco, due zampe e una coda, già presente in Altered Beast sotto forma di nemico) reso disponibile dal disarcionamento del cavaliere avversario.

Fun fact: nonostante lo giocassi sempre con qualcuno non lo portai mai a termine, però vidi il finale una mattina prima di andare a scuola… Non di certo non durante Ciao Ciao Mattina (quella bellissima trasmissione condotta da Paola Tovaglia insieme al pupazzo Ragù) tra una puntata di Scuola di Polizia e una di Tartarughe Ninja alla Riscossa; mi svegliai verso le sette del mattino e trovai mia madre intenta a sconfiggere Dark Guld (il Death Adder del secondo episodio), l’ultimo boss del gioco. Ovviamente non trovai la mia colazione a base di latte e Nesquik pronta, ma fu lo stesso un grande inizio di giornata.

Teenage Mutant Ninja Turtles: The Hyperstone Heist (1992, Mega Drive)

Questo a mani basse era il mio gioco preferito dell’epoca su Megadrive, vuoi perché da bambino insieme ai Ghostbusters fu il mio cartone animato irrinunciabile, vuoi perché forse si trattava del miglior picchiaduro a scorrimento disponibile per la console, probabilmente anche più riuscito degli Streets of Rage, ma questa forse è solamente una questione di lana caprina su quale dei due fosse meglio. Per me era tutto perfetto, musiche, grafica, storia, nemici, gameplay… non c’era nulla fuori posto, soprattutto quando con il mio miglior amico dell’epoca, Daniele, dopo i pomeriggi di scuola ci si fiondava dritti a casa mia per giocare dalle 16:30 alle 18:00 alle “Tartarughe Ninja”.

Mike rimarrà sempre il numero uno per me, ma Don era troppo quello giusto in questo gioco.

Questo a differenza di Golden Axe II si finiva ogni sacrosanta volta, cascasse il mondo. Alla peggio si arrivava al Tecnodromo, ma difficilmente non se ne usciva vittoriosi dopo aver smazzuolato Krang prima e Shredder poi. Il vero ostacolo era superare il livello denominato “The Gauntlet", poiché consisteva in una boss rush estenuante in una caverna piena di insidie. Da buon gioco dall’anima arcade nonostante fosse sulla console ammiraglia di SEGA, Konami doveva per forza di cose inserire due delle sue peculiari caratteristiche di design dell’epoca, immancabili specialmente in questi tipi di giochi, ovvero una boss rush (come scritto sopra) e un livello ad ascensore e pure qui erano ben presenti (verso la fine del Tecnodromo).

Ovviamente anche con questo titolo c’era la solita diatriba su chi doveva prendere chi, perché chiunque voleva Michelangelo, la tartaruga fuori dagli schemi, quella più matta, ma più giocavamo più capii che forse il personaggio migliore era quello che tutti ritenevano il più sfigato, quel Donatello “senza carisma” e dai colori smorti, bandana viola e carnagione verde marcio (se si selezionavano le colorazioni dei comics), ma con una caratteristica preponderante su tutti quanti: la sua arma era quella col range più vasto, il suo bō aveva un’utilità senza pari rispetto agli altri. Non nascondo che mollare Michelangelo per me fu un colpo al cuore, ma già da piccolo e da buon puntalcazzista in me si stava sviluppando un occhio più analitico verso il medium, facendomi tendere per qualcosa di più pratico piuttosto che esteticamente appagante.

Tomb Raider II (1997, PS1)

Tomb Raider II per la prima PlayStation, l’ultimo titolo di cui voglio parlare. Ecco, questo fu il gioco che mi aprì alla saga capitanata da Lara Croft e che mi vide collaborare con mio padre per poterlo finire. So che non è un titolo co-op né multiplayer, ma l’esperienza che ebbi con questo gioco fu una cosa molto simile dato che era un continuo passaggio di mano del pad; il problema era solo uno, cioè che non ero io quello bisognoso d’aiuto per poter passare i pezzi più complessi; era invece il contrario, toccava a me risolvere i momenti più spinosi a mio padre. Non nascondo che questa dinamica mi rese piuttosto indigesta la saga dell’archeologa più famosa (e desiderata) di sempre, dato che la mia presenza era costantemente richiesta tramite schiamazzi e mugugni di disperazione.

La casa di Lara era praticamente il tutorial del gioco: nonostante le ore passate tra esplorarla, chiudere il maggiordomo nella cella frigorifera e provare tutti i tipi di percorsi, nulla poteva prepararti al legno che poi si sarebbe rivelato il gameplay dell’avventura principale.

Cercate di capirmi, farsi passare il pad in quei momenti platform così rudimentali, con quei tank control al gusto di marmo con una spolverata di ferro, dove il mio vecchio, con quel suo sorriso sardonico, sperava che lo potessi portare allo step successivo. Fortunatamente giocava sempre con una guida alla mano (rigorosamente acquistata come allegato a qualche rivista in edicola), così almeno i puzzle ambientali erano a suo appannaggio (sempre che non si trattasse di sessioni a tempo, altrimenti anche lì il controller veniva riposto nelle mie mani).

Quest’esperienza per me fu piuttosto traumatica, perché venne reiterata sia con il prequel (recuperato a posteriori) che per il terzo capitolo, non escludendo ovviamente The Last Revelation e Chronicles. Per fortuna la striscia non continuò su PlayStation 2, perché mio padre preferì trasferirsi su PC con gestionali e RTS, liberandomi dal fardello della sua incompatibilità con i giochi d’azione (che poi mi chiedevo come fosse possibile, dato che era riuscito a finire giochi come Alex Kidd e Wonder Boy III: The Dragon’s Trap su Master System).

Giocare ai videogiochi con mio padre era più come in questa scena de Il piccolo grande mago dei videogames, mi lasciava sempre spaesato, non era di certo come quelle foto stock di internet che paiono di più una pubblicità della Mulino Bianco che una situazione di vita reale.

Questo è il racconto della mia esperienza, su come per me debba essere il multiplayer perché ne possa fruire. So che è un’idea da matusa, da vecchio reazionario, da nostalgico (non però quel tipo di “nostalgia”, ci siamo capiti), soprattutto vedendo quanto si sia evoluto questo medium, ma è proprio la condivisione dell’esperienza in loco che mi è sempre piaciuta, il passare momenti insieme nella stessa stanza, ridendo, scherzando e prendendosi in giro, magari spintonandosi spalla contro spalla. Ad esempio le mie esperienze con giochi come GTA Online, Mario Kart 8 Deluxe e Mario Kart World mi hanno sempre più frustrato e innervosito che divertito, dato che la mia vena competitiva tende a diventare troppo preponderante togliendomi tutto il godimento della sfida. Poi ci sono giochi con un multiplayer asincrono che non contengono quelle caratteristiche così stressanti, ma quelli li ho sempre trovati più interazioni sociali che di gioco vero e proprio.

Spero di non avervi tediato troppo ma di avervi strappato almeno un sorriso, che sia beffardo o meno non importa, l’importante è avere condiviso dei momenti insieme. Come quando si gioca insieme, fianco a fianco su un divano.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al multiplayer, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

Il cerchio della vita è una partita in multiplayer

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