Sossoldi!
Ne ho le tasche piene! Ma non come pensate voi.
Ecco, non avrei saputo come iniziare diversamente con questa mia disamina. O meglio, avrei saputo come farlo, ma ho preferito utilizzare uno stile più sobrio. Ma di cosa vi voglio parlare? Qual è l’argomento di cui voglio trattare? Il tema è semplice, e voglio parlarvi di come il capitalismo abbia vinto su tutto e su tutti, soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento; badate bene, non voglio lanciarmi in una propaganda socialista, complottista o chissà che, voglio solo, in tutta calma, esaminare la situazione attuale di uno dei nostri passatempi preferiti. Non prenderò in considerazione tutti i tipi di intrattenimento per non generalizzare troppo, ma voglio focalizzarmi solo su un medium specifico, quello videoludico, perché quello che sto vedendo accadere oggi, soprattutto nell’internette, è come la gente abbia ormai scambiato questo luogo virtuale per un blog di lamentele personali, e mi sembra veramente straniante.
È dall’annuncio della nuova console di Nintendo che la questione è esplosa, svegliando i malumori di un pubblico che fino a quel momento, benché scontento di aumenti sembrava comunque farli passare in secondo piano, ma quando pure l'azienda di Kyoto si è allineata a livello di prezziario a quello dei diretti competitor, è scoppiato il finimondo. Subito è stata tacciata di “politiche anti-consumatore”, quando a conti fatti, i giochi a settanta o ottanta euro e le console a prezzi maggiorati erano già realtà, ma la cosa che più mi ha stupito è stata la cieca cattiveria con cui una parte di utenza abbia deciso di puntare contro una sola azienda escludendo le altre due, che con il passare del tempo, zitte zitte, sono riuscite a fare ancora di peggio: chi ha aumentato ulteriormente il prezzo delle proprie console e accessori a cinque anni dal lancio o chi ha deciso, da un giorno all’altro, di modificare le tariffe dei propri servizi del 50%.
Come ci ricorda Bill Gates nei Simpson rilevando la start-up di Homer, non è di certo elargendo assegni che le multinazionali diventano ricche!
Lo voglio specificare prima che qualcuno (come mi è già successo in altri lidi) mi tacci di essere un nintendaro: il paragrafo precedente vuole solo sottolineare quanto la "Grande N" si sia perlopiù allineata a un mercato che, poiché anche se in contrazione, lo vede essere il più remunerativo tra quelli dell’intrattenimento, e che il loro unico obiettivo, come quello di qualsiasi multinazionale sia di fatturare sempre il più possibile per rendere gli investitori contenti, ovviamente a discapito della propria utenza. Mi piace questa scelta? Assolutamente no, e il mio unico modo per rispondere a questa situazione è il dover ponderare ulteriormente i miei futuri acquisti sulla loro piattaforma, dato che anche io, come tutti, non ho né portafogli né tempo infiniti. Però c’è una cosa che non mi va proprio giù di queste “lamentele internettiane”, ovvero piagnistei su quanto queste aziende stiano adottando manovre “anti-consumer”. Ma veramente vogliamo essere considerati solamente “consumer”? Una volta c’era la definizione di "customer" (cliente), ora ci si autodefinisce consumatori.
Se non c’è nemmeno rispetto verso noi stessi nel definirci, come possiamo pretendere che lo facciano aziende che ci vedono solo come limoni da strizzare? Da una vita in rete c’è questa discussione su quanto i videogiochi dovrebbero essere considerati arte ma la nostra categoria, quella dei “gamer”, ogni volta che deve aprire il portafogli riesce a sminuire il tutto declassando la propria passione in “prodotti di consumo”. Possibile che ogni volta che uno debba acquistare qualcosa, soprattutto su beni non di prima necessità (ma manco di seconda) si senta in dovere di far uscire tutta la sua rabbia sputando veleno e sentenze all’urlo di “sossoldi”, di Mariottidesca citazione? Nell'ultimo periodo abbiamo avuto l’esempio di Hollow Knight: Silksong e di come i suoi sviluppatori, forti del successo del primo capitolo e del fatto che non sono sotto nessun tipo di publisher, abbiano potuto pubblicare il loro gioco a un prezzo pressoché risibile, qui da noi meno di venti euro, creando un pandemonio che mi ha lasciato perplesso.
Un prezzo così basso in tutta onestà non me lo sarei mai aspettato, pensavo più a una cifra intorno ai trenta euro per rimanere in linea con i maggiori esponenti del genere a cui fa riferimento, o anche di più, magari quaranta se non addirittura cinquanta euro, visto l'entusiasmo che negli anni si era creato intorno al gioco. Ma così non è stato e determinati sviluppatori indie, con mia somma meraviglia, se ne sono lamentati; inizialmente non capivo il perché ma più passa il tempo più comprendo che una parte di ragione c’era; ma in cosa consisteva questa lamentela? Lo sviluppatore RJ Lake (director di Unbeatable, gioco prossimo all’uscita) ha dichiarato: "Silksong onestamente dovrebbe costare 40 dollari e non sto scherzando. Possono prezzarlo basso quanto vogliono. Il loro ritorno sull’investimento sarà infinito, non importa quello che facciano. Ma metterlo a un importo così basso, stanno facendo innescare segnali che dicono 'questo tipo di gioco vale venti dollari".
Pensavo fosse una sparata più per paura che per altro, dettata dal fatto che il suo gioco avrebbe forse "cozzato" contro quello di Team Cherry; ma più vado avanti più capisco che non avesse tutti i torti. La mole di contenuti di Silksong è talmente elevata e di qualità da renderlo veramente un unicum a quel prezzo, cifra dovuta soprattutto alla storia del suo precedente capitolo e della “tranquillità” economica che ha portato alla software house che l’ha creato, davanti alla quale bisogna però levarsi il cappello per quanto, a differenza di quanto ci sta dimostrando il mercato, abbia voluto premiare il suo pubblico con un prezzo più che accessibile. Ma torniamo a ciò che quei venti dollari significano per i giocatori che, come sempre, si dimostrano poco lungimiranti e tirchi quanto le grandi aziende dell’intrattenimento videoludico. Ormai in tanti, se non in troppi, si sono convinti che da adesso quel valore debba essere lo standard non solo per un indie, ma per il mercato generale, criticando cifre richieste senza valutare minimamente quello che sta dietro allo sviluppo del titolo stesso.
Hollow Knight Silksong si sta dimostrando un gioco meritevole di un prezzo maggiore di quello a cui è stato proposto, ma non per questo deve essere preso come standard, anzi, è l’eccezione che conferma la regola.
Pure il tanto (giustamente) acclamato Clair Obscur: Expedition 33 ha dovuto far fronte a questa dinamica, proponendosi a un prezzo budget di cinquanta euro, cifra comunque non bassa per un gioco doppia A, ma che con gli scossoni dell’ultimo paio d’anni, la gente ha già somatizzato senza colpo ferire. Ma siamo sicuri che il gioco avrebbe avuto questo successo se non fosse stato nel GamePass di Xbox, godendo un boost di visibilità poiché fruibile anche a prezzo contenuto, scatenando tutto il chiacchiericcio e il conseguente passaparola positivo? Onestamente, non credo proprio, dato che l’utenza PC e Xbox (la prima ad aver portato sugli scudi la creazione di Sandfall Interactive) è stata abituata negli anni a costi molto ridotti, facendogli percepire il prezzo pieno come qualcosa di sbagliato, sminuendo così il lavoro degli sviluppatori. Abbiamo già avuto in precedenza un mercato che, poiché abituato a prezzi irrisori se non addirittura al free-to-play, ha totalmente rigettato anche solo l’idea di spendere dieci euro; ovviamente sto parlando di quello mobile, tanto florido quanto però chiuso in iterazioni veramente limitate.
Pochi sono i giochi che su mobile vantano strutture e design da PC o console, tutti free-to-play infarciti però di acquisti in-game predatori come i gacha (Genshin Impact e simili) o i vari Fortnite e Call of Duty: Warzone Mobile. Un dubbio mi sorge spontaneo: veramente possiamo pensare che tutto debba essere sempre venduto al prezzo minimo, senza rinunciare mai allo sconto e certificare la nostra modalità di acquisto al risparmio come qualcosa che ci renda dei videogiocatori migliori? Veramente la spasmodica ricerca del low cost è qualcosa che dovrebbe essere elogiata? Possibile che un'utenza si sia trasformata così tanto da non riuscire a resistere all’acquisto compulsivo, dovendo perciò trovare degli escamotage per rimanere sul treno (della discussione) in corsa? Dover giocare tutto al day-one è così necessario? Cosa distingue, alla fine, l’avidità dei grandi publisher da quella della loro utenza? OK, mi direte “eh ma le Big Corp sono pozzi di soldi infiniti e senza fondo, il consumatore finale deve arrivare alla fine del mese”, ed è proprio qui che voglio andare a parare col mio ragionamento, sottolineando quanto detto all’inizio, che il capitalismo ha vinto, perché benché le persone facciano fatica ad arrivare a fine mese non vogliono rinunciare a niente, incazzandosi pure se le aziende che le hanno rese così dipendenti dai loro prodotti non gli vengono incontro, negando loro la “droga” a un prezzo di cortesia.
Oltretutto, ultimamente stiamo assistendo a dirette di influencer che ad esempio chiedono di “boicottare” Nintendo, perché starebbero derubando la propria clientela, come se ormai chi compra i loro prodotti non avesse più una sua capacità di intendere e di volere su come e dove spendere, come se Shuntaro Furukawa in persona si presentasse a casa dei consumatori con una pistola pronto per una rapina in grande stile. Rivoluzionari dalle proprie camerette, dei moderni John Lennon e Yōko Ono (come poi citati dagli Oasis in Don't Look Back in Anger). Tutti questi proclami fatti sulle piattaforme di Meta, Amazon e Google, un paradosso insomma, visto che questi sedicenti luminari del pensiero sociale guadagnano il loro stipendio tramite le stesse multinazionali che tanto denigrano. Un cane che si morde la coda insomma, un cane chiamato Turbocapitalismo.




