Splatoon è uno stile di vita
Non sono mai stato un tipo da multiplayer. Penso di non aver mai fatto una partita online a Call of Duty in vita mia, anche se pare assurdo. A dire il vero all’epoca, per lo stesso motivo, snobbai pure Splatoon, decidendo di accompagnare l’acquisto di Wii U con altri titoli più familiari e di sicuro gradimento. Poi, insomma, il fatto che su Wii U uscissero circa due giochi importanti all’anno mi fece osare dove non mi ero mai spinto. E santo cielo che estate che fu quella!
Splatoon rapiva subito con l’estetica, pronti via; quei colori, quell’atmosfera impregnata di street culture in un mondo parallelo e impossibile, popolato da calamari, polpi e altre deliziose bizzarrie. Un nuovo Jet Set Radio, come filosofia e capacità di raccontare un mondo dove i giovani si riprendono gli spazi urbani facendo casino, vivendo con le proprie regole e facendo comunità, anche e soprattutto attraverso uno sport che rappresenta tutta la loro generazione. Una guerriglia urbana dove l’inchiostro fa le veci dei proiettili, con l’obiettivo di colorare le arene come i writer colorano il cemento delle città, rivendicando il proprio posto, rifiutando di uniformarsi, di essere ordinati e disciplinati. L’adrenalina scorre a fiumi a Coloropoli, nell’aria si respira anarchia; è un luogo dove la rivoluzione è già successa, ed è bellissimo. C’è gioia, competizione, senso di comunità che trascende il worldbuilding per arrivare direttamente ai giocatori, che ne interpretano gli abitanti sfoggiando il proprio talento, tecnica e stile ma anche uno spirito sportivo galvanizzante.
Esprimere il proprio stile, di gioco quanto estetico, è tanto fondamentale nel sentirsi parte di quell’accogliente mondo, quanto nel godimento assoluto del gameplay.
Splatoon è stato un evento collettivo, per chi l’ha vissuto; una bolla di libertà espressiva e ludica in cui pure i limiti strutturali dell’online made in Nintendo sembravano meno rilevanti del solito, quasi che non riuscissero a depotenziare un fenomeno che andava oltre il puro gameplay. Senza chat vocale, senza un sistema di messaggi che non fossero quelli preimpostati sul d-pad, si riusciva a comunicare e coordinarsi mossi da un sentimento comune, manifestando insieme più che ragionando individualmente. Splatoon in quei momenti di esaltazione pazzesca diventava uno stile di vita, esattamente come succede appassionandosi con uno sport. Si diventa sempre più bravi, ci si specializza in un ruolo, si comparano accessori sempre più fighi per distinguersi. Ricordo ancora le rimonte più clamorose, partite ribaltate a un centimetro dalla sconfitta, quando quattro cervelli ai quattro capi del mondo riuscivano a trovare un’intesa impossibile, nonostante i lag dei giocatori giapponesi e altri orrori di connessione diventati nel tempo consuetudini, meme, involontarie regole del gioco. Certe esultanze erano paragonabili solo ai gol più importanti dell’Inter, robe di cui vorrei sinceramente avere i video. Trasfigurato, sudato davanti al ventilatore alle 4.00 di sabato mattina, con qualche birra di troppo in corpo e la totalizzante sensazione di non aver mai provato niente di simile davanti ad un videogioco. Un giocatore solitario (anche perché ero l’unico matto tra i miei amici ad avere Wii U) che si è sentito parte integrante di un fenomeno, vivendolo con un trasporto militante.
Le arene erano poche ma il loro level design le rendeva dei parchi giochi pazzeschi in cui sfogarsi.
Non voglio dire che da allora non abbia mai più provato quel genuino entusiasmo, quella felicità, quello stupore davanti ad un videogioco, perché non sarebbe né vero né giusto ma, probabilmente, guardando indietro a ormai 10 anni fa, penso che quel periodo sia stato in assoluto il più sereno della mia vita e, Splatoon, ha sicuramente contribuito a creare quello stato d’animo, alimentandosi a sua volta del mio entusiasmo. È come se si fosse chiuso un cerchio quando giocai l’ultima partita, una fase della vita che, negli anni successivi, ho cercato ripetutamente di rivivere, ritrovare, provando a reiterare i rituali e ricreare le atmosfere di quell’estate, fallendo, ritrovandomi più malinconico di prima e dovendo ammettere che quel periodo doveva rimanere semplicemente un bellissimo ricordo. Non è un caso che né il secondo né il terzo capitolo mi abbiano ammaliato ed esaltato come fece il primo, nonostante fossero titoli assolutamente migliori, più completi, solidi nel netcode; eppure mancava quella scintilla. In me, non certo nei giochi.
Per sempre una delle mie città virtuali preferite, con la gente che postava pensieri attraverso Miiverse e quegli incredibili negozi.
Ma è giusto così, bisogna passare il testimone e il successo della serie è indicativo di quante ragazze e quanti ragazzi ci siano, là fuori, che cercano e trovano il loro posto nella gioiosa anarchia pensata dall’allora giovane team di sviluppo, assemblato da Nintendo per tirare fuori idee di rottura, che deviassero dai canoni estetici e ludici delle decine di serie già pubblicate. Un esperimento che si concluse in un trionfo totale, che cambiò totalmente l’atteggiamento della major nei confronti del multiplayer online, arrivandoci tardi ma arrivandoci con un’idea geniale e unica, da instant classic. Una parte del mio cuore è ancora lì, che batte al ritmo di quella folle, incredibile, travolgente colonna sonora aliena firmata dalle popstar Stella e Marina, con uno splatter in mano a sguazzare fino alle caviglie nell’inchiostro fluo di una battaglia giocosa, furiosa, infantile nel senso più puro del termine, quello del divertimento primordiale, senza complicazioni, angosce, limiti, quando sembra che il mondo sia solo nostro.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al multiplayer, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.


 
             
             
             
       
      

