Quella del marrone è un'epoca tragicomica che in fondo un po' rimpiango
Me li ricordo bene, quegli anni. Anni di buio, di tristezza, di lungo tunnel al termine del quale non sembrava potersi manifestare una luce. Anni in cui era stata appena svelata una nuova generazione e si stava iniziando a capire quanto sarebbe stata strana. Anni in cui Sony inciampò in quello che a oggi rimane il suo unico periodo davvero fallimentare (dove per “fallimentare” si intende “arrivava da due generazioni di semi-monopolio e s’è dovuta accontentare di un mercato diviso in parti uguali”). Anni in cui tutto appariva marrone, grigio, verde, nero, triste ma soprattutto marrone.
Me lo ricordo bene, quel momento in cui il gioco che avrebbe dovuto trainare PlayStation 3 era questa roba bizzarra che mescolava i due trend principali degli sparatutto, gli alieni e le guerre mondiali, per tirarne fuori un frullato triste, buio e soprattutto marrone. Che poi Resistance non era un gioco pessimo, aveva delle idee, così come le avrebbero avute i due seguiti. Ma era triste, era buio, non sapeva neanche dove stesse di casa il carisma, e soprattutto era marrone.
Il marrone era pervasivo, era ovunque, era retaggio di un trend avviato con forza già nella generazione precedente e concepito negli anni della prima PlayStation. Gli anni del videogioco che diventava adulto, che si scrollava di dosso il colore, che salutava con disprezzo le mascotte, un tempo pilastro del videogioco, successivamente ridotte a Mario, quando va bene Sonic, gli altri si spostino, per favore, che dobbiamo lasciare spazio ai soldati, alle spie, ai guerrieri, alla gente complessata che vaga fra i mostri, i demoni, gli zombi e i fantasmi.
Fu lì che il marrone iniziò a invadere tutto, a tracimare in ogni direzione, a prendere possesso del videogioco e a stringerlo in una morsa implacabile, che avrebbe sferrato il colpo di grazia a cavallo fra le generazioni di PlayStation 2 e PlayStation 3. In quel momento lì, in quel momento in cui gli studi di sviluppo occidentali impararono finalmente a combattere col Giappone sul suo campo da gioco, rispondendo alla spocchia dei Dante e dei Chris Redfield con le mazzate dei Kratos e le motoseghe dei Marcus Fenix, era già tutto finito. Noi ne avevamo il sentore, ma non ce ne rendevamo conto fino in fondo. Pensavamo che il marrone, questa melma fecimorfa che rendeva tutto più buio, ricoprisse solo i pixel dei giochi meno carismatici. Credevamo che a Silent Hill si respirasse un’aria diversa, che Jak & Daxter fossero alfieri del colore ultravivace, ma stavamo mentendo a noi stessi, forse anche in maniera più consapevole di quanto potremmo ammettere.
Avevamo perso. Il marrone aveva vinto. Il marrone ci aveva ricoperti con la sua coltre di sangue e merda. E su quest’onda implacabile di fango, sfrecciava la nuova e rinnovata convinzione che un gioco potesse essere indicato come adulto solo se non si permetteva di sorridere, solo se ti offuscava lo sguardo con la sua palette da chiazza di vomito sul marciapiede dopo quel giro di shot a cui avresti dovuto dire di no. E allora tanto valeva rilanciare, tanto valeva convincersi che bastasse riempire il linguaggio di scurrilità e infilare citazioni letterarie sterili a caso per ammantarsi di maturità, per poter dire “Sì, il videogioco è adulto, il videogioco è una cosa seria.”
Seria come la merda. La merda che ti cola fra le cosce quando subisci un attacco micidiale di sciolta, la merda che non riesci a trattenere perché quel virus intestinale ti ha scombinato le budella, la merda spinta con forza dal sushi orribile che hai mangiato nell’all you can eat pur sapendo che non avresti dovuto. Lei. L’amMmerda.
Quanto è durata, questa fase sterile e ammorbante del videogioco? Questa fase in cui Gears of War sembrava di un altro pianeta perché il marrone lo nascondeva dietro la patina lucida e scintillante offerta da un Unreal Engine sfruttato alla grande dai suoi creatori. Questa fase in cui eravamo talmente affamati di colore da credere che il primo Uncharted fosse un gioco vivace, allegro, brillante, colorato, giusto perché tra i miasmi fangosi emergeva un po’ di vegetazione. Questa fase in cui quando qualcuno provava a infilare dell’umorismo spinto (ciao Dead Rising, ti voglio bene) o addirittura a utilizzare colori ficcanti per caratterizzare tanto l’estetica quanto il gheimplei (ciao Mirror’s Edge, ti voglio bene) pareva il lavoro di pazzi visionari pronti per il manicomio.
Quanto? Quanto? QUANTO? Per quanto tempo siamo rimasti a mollo nella merda?
Un gioco colorato.
La butto: una ventina d’anni, fino a quando ci è stato lanciato un salvagente di nome Overwatch, accompagnato da un canotto di nome Fortnite. Improvvisamente il colore è tornato di moda. Improvvisamente abbiamo aperto gli occhi e sono stati sommersi da una marea multiforme di tinte che neanche ricordavamo potessero esistere. Improvvisamente, l’estremizzazione estetica del videogioco ha cambiato direzione, è uscita dalla tazza del cesso in cui stava nuotando da decenni come un Mark Renton che non ha mai recuperato le supposte, si è scrollata di dosso i pezzettoni di merda che le erano rimasti attaccati addosso e s’è gettata in un tunnel d’ecstasy e perdizione, colorato fino allo sfinimento, capace di trovare una personalità e una forza espressiva non nel (presunto) realismo e nella maturità (fittizia) ma in un’espressione vivace, spiazzante, schizoide, stilizzata, rivitalizzante.
Che bellezza.
E, dieci anni dopo, ne ho le palle piene. Ormai tutto, in particolare quando quel “tutto” ha a che fare col multiplayer ma non solo, deve essere COLORATISSIMO, STILIZZATISSIMO, PAZZISSIMO, FARIDERISSIMO e siamo tornati a nuotare in un mare di merda. Certo, è merda multicolore invece che marrone, ma non sono convinto che solo per questo sia una merda particolarmente più saporita.
Che palle, il videogioco e i suoi trend senza via d’uscita.
Sono riusciti a farmi rimpiangere perfino il marrone.
Ma dico io.