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L'attesa di Borderlands è essa stessa Borderlands | Racconti dall'ospizio

L'attesa di Borderlands è essa stessa Borderlands | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Le prime volte si ricordano sempre, indistintamente; soprattutto se poi si trasformano in dipendenze. E no, non si tratta di un preambolo atto ad anticipare me che parlo su Outcast della mia assuefazione alla marijuana. Quello, magari, un’altra volta, anche perché non è mai stata, per me, una di quelle dipendenze problematiche, nemmeno in termini economici – tant’è che è pure erroneo definirla assuefazione. La dipendenza di cui voglio scrivere oggi è ben peggiore e riguarda quel perverso ibrido fra MMO, GdR e sparatutto, che mi ha completamente inghiottito con Destiny e The Division, per un totale di oltre 700 ore di gioco (non è un’iperbole) spalmate negli ultimi anni. Ora ne sono uscito, almeno per un po’, credo. È che sono quasi adulto, purtroppo, e se passo troppo tempo su un solo gioco, finisce che non faccio altro, in generale, venendo inghiottito in quel perverso vortice da cui proprio non si esce: se sono produttivo nella vita reale, non lo sono su Destiny e passo le serate rosicando; se lo sono su Destiny, non lo sono altrove e rosico ancora di più. Senza contare, poi, che è la parte MMO che mi fotte malamente, spingendomi a dare sempre il massimo per superare chi, in realtà, giocherebbe accanto a me. Un cane che si morde la coda, insomma.

Per ora ne sono uscito, dicevo, ma vai a sapere quello che riserva il futuro; anche perché di recente è uscito Ombre dal profondo, l'ormai canonico major DLC autunnale di Destiny 2 che, visto da lontano, mi sembra ancora più bello di quello che forse effettivamente è. Specie per il fatto che ci stanno giocando diversi miei amici. Ecco, qui arriviamo a uno snodo importante: gli amici, che se uniti a una dipendenza personale, magari da condividere, creano una miscela micidiale. Non a caso, è nato tutto, in realtà, da un altro gioco, Borderlands, un gioco seminale per quelli che poi sono diventati la mia ossessione, cioè i looter shooter, come direbbero quelli bravi con le etichette. In realtà, il gioco di Gearbox lo ricordo benissimo per un altro motivo. Avevo sedici anni ed ero uscito da un altro gioco che all’epoca si risucchiò gran parte dei miei pomeriggi, ovvero Fallout 3. Ne rimasi impallatissimo insieme al mio migliore amico dell’epoca, Gianluca. Ci giocavamo in parallelo, ognuno per i fatti propri, per poi vederci la sera, a scambiarci idee e opinioni, rivelandoci a vicenda segreti che altrimenti l’altro non avrebbe mai potuto, forse, scoprire. Fortunatamente, Fallout 3 era un gioco, se così vogliamo definirlo, dalla giocabilità finita: oltre alle missioni principali e secondarie, c’erano sì i segreti, ma ecco, dopo aver esplorato in lungo e in largo la mappa di Washington D.C., non rimaneva granché da fare, se non tentare di far estinguere i deathclaw, al massimo.

Insomma, non rimaneva altro da fare che cercare qualcosa che potesse avvicinarsi a Fallout 3. All’epoca, tuttavia, non eravamo ancora molto pratici di anteprime e giochi in arrivo, a meno che non si trattasse di qualcosa di veramente grosso o a cadenza annuale. Al massimo si controllavano, di tanto in tanto, Spaziogames o Multiplayer, cercando recensioni dal 9 in su, e per il resto compravo di tanto in tanto qualche numero di Xbox Magazine, giusto per convincermi di essere un raffinato intenditore di videogiochi. Almeno io. Gianluca, invece, di questo genere di robe – le recensioni, intendo – non ne ha mai voluto che saperne; buon per lui, potreste dire. Peggio di certa stampa, cosa ci potrebbe essere? Il commesso del Gamestop, vi rispondo io. Angelo, nella fattispecie, con cui durante quell’anno iniziò a intrattenere un dispendiosissimo rapporto di amore-odio ma che, lì per lì, ci portò alla conoscenza di Borderlands, “che è tipo Fallout 3, cioè un mix fra GdR e sparatutto in prima persona, con ma con la grafica da cartone animato. E potete averlo per soli venti euro*”. Venduto, o meglio, pre-ordinato al volo – rileggendomi, credo che questo capoverso potrebbe benissimo intitolarsi “esempi di patetica demenzialità adolescenziale”.

* 20€ e due giochi usciti negli ultimi cinque mesi. I soliti affaroni che si riescono a fare solo al Gamestop.

Il gioco arrivò sugli scaffali, con puntuale chiamata di Angelo a ricordarcelo, l’ottobre del 2009, a un mese circa dall’inizio della scuola: il periodo perfetto per passarci su interi pomeriggi, con le pagelle del primo quadrimestre ancora distanti da ogni preoccupazione di sorta. Eravamo gasatissimi. Anzi, io di più: mi capitava davvero raramente di pre-ordinare un videogioco e non tanto per chissà quale scelta etica nei confronti degli sviluppatori eccetera – tutte quelle considerazioni che, con lo spirito critico che mi ritrovavo, non mi passavano manco per l’anticamera del cervello. Piuttosto, il problema erano i soldi. La situazione, oggi, è lievemente cambiata, con il mercato che si è allargato e gli sconti che si palesano a ogni occasione buona, ma all’epoca, pre-ordinare un gioco voleva dire comprarlo a prezzo pieno; e io, abituato com’ero a farmi prestare i giochi o, nel peggiore dei casi, a comprarli ad almeno un anno dal lancio, mi trovavo parecchio a disagio, nello spendere settanta euro per un videogioco, specie se col dubbio che, per chissà quale motivo, quello stesso acquisto potesse rivelarsi un flop, a scatola chiusa. Però non potevo mica tirarmi indietro, specie dopo un’estate passata a mitizzare Borderlands. Se proprio dovevo buttarci tutti quei soldi, doveva valerne la pena, avrei dovuto esserne certo. Banalmente, internet fu la risposta.

Imparai a memoria tutto quello che riguardava lo sviluppo del gioco, leggendo ogni notizia sul tema, e appassionandomi addirittura alla figura di Randy Pitchford – bei tempi, quelli dell’adolescenza, quando puoi passare un intero pomeriggio a guardare tutte le strimpellate di uno sciroccato sviluppatore di videogiochi, senza avere troppe recriminazioni con te stesso a fine giornata. Credo che le mie velleità di diventare un giornalista videoludico, a onor del vero abbandonate dopo non molto, nacquero proprio durante quel periodo. Ma a mandarmi in sollucchero per l’uscita di Borderlands fu un dettaglio più di tutti: la cooperativa, addirittura per quattro giocatori, anche offline, in split-screen. Una vera follia. Rientravamo, peraltro, a pennello. Non solo Gianluca, ma si sarebbero potuti aggregare anche altri due nostri amici, Domenico ed M, quest’ultimo figura mitologica di cui ho ormai perso completamente le tracce.

Così, dopo aver risparmiato, di euro in euro, per un’estate intera, arrivai a ottobre con abbastanza soldi per il mio investimento sicuro, Borderlands. Ad accompagnarci al Gamestop fu il nonno di M, e alle 15:00 in punto eravamo lì, all’apertura del negozio. Il programma, messo a punto con dovizia di particolari, era abbastanza semplice: comprare le due copie del gioco, per me e per Gianluca, andare a casa di M, sguarnita da genitori e munita addirittura di un quaranta pollici HD ready , e giocarci fino a sera, con Domenico che ci avrebbe raggiunto di lì a poco. Tutti e quattro, con quattro pad in mano, a devastarci fino al calar del sole, e poco importava che, nei giorni immediatamente successivi, a giocare a Borderlands saremmo stati solo io e Gianluca: quel pomeriggio avrebbe convinto Domenico ed M a comprarlo anche loro, il gioco. Se non altro, per giocarci insieme. E poi era un investimento sicuro, Borderlands, suvvia, non avrebbe mai potuto floppare, anzi, avrebbe spaccato, di certo. Lo avrebbero capito giocandolo insieme a noi, e a quel punto convincerli ad acquistarlo sarebbe stato naturale, anzi, quasi inutile, quasi intuitiva, come azione.

Alle 15:30 eravamo già a casa di M e tutto era stato preparato fin nei minimi dettagli, dall’Estathé nel frigo fino ai panini al latte da rimpinzare di Nutella. E Domenico, ovviamente, era già lì, ad aspettarci. Era fatta: avremmo passato il prossimo inverno a devastarci a Borderlands, tutti e quattro, come mai in vita mia. Troppo bello per essere vero, e infatti non andò affatto così.

Gianluca ed M ne furono subito catturati, ammaliati, ma io e Domenico no, affatto. A destabilizzarlo fu il cel-shading, o forse quella quantità esagerata di panini con la Nutella. A me, invece, il gunplay. Si sparava veramente di merda. Non che mi aspettassi Call of Duty 4, ma insomma, neanche ‘sta roba. Almeno, in Fallout 3 potevo usare lo SPAV, il puntamento assistito, e tanti saluti alla mira ad minchiam. Cioè, questo è quello che ricordo, a più di dieci anni di distanza. Pensandoci meglio, a destabilizzarmi di più furono forse i settanta euro spesi quel giorno; o, meglio, la consapevolezza che quei soldi avrei potuto rifarmeli, subito. M, infatti, rimase incantato dal gioco. “Domani stesso vado a comprarmelo ‘sto Borderlands! ‘Na ficata assoluta!” “Oh, se vuoi ti do il mio. Te lo vendo, intendo” “Ma no, scherzi, lo compro al Gamestop. E poi, se me lo vendi, tu a che giochi?” “Qualcos’altro lo trovo, tranquillo, e comunque lo prendo comunque, Borderlands, eh, ma appena si abbassa di prezzo, tipo a cinquanta euro” “Va bene, dai, affare fatto, allora”.

Nonostante questo mio ripensamento, fu comunque un pomeriggio tranquillo: niente battutine sul mio essere tirchio o altro, solo risate genuine e innocue. Usciti da casa di M, però, Gianluca mi lanciò uno dei suoi sguardi fulminanti, sibilandomi “lo sapevo che non avresti mai potuto spendere settanta euro per un videogioco”. Aveva ragione.

Di M, oggi, ho perso completamente le tracce. So solo che vive a Piacenza e mi è tornato in mente quando, qualche mese fa, ho visto per puro caso, con qualche settimana di ritardo, il manifesto funebre di suo nonno. Mi è dispiaciuto davvero tanto non essere potuto andare al suo funerale. Gianluca, invece, ha preso un’altra strada, e ci vediamo sì e no un paio di volte all’anno; con lui sono sempre chiacchierate brevi e formali, non parliamo mai di videogiochi. Anzi, sono io che non accenno mai all’argomento, nonostante sia stato il principale collante che ha tenuto in piedi la nostra amicizia per più dieci anni: do quasi per scontato che a lui, persona ormai matura, certe inezie non interessino più. Con Domenico, al contrario, mi sento quasi ogni giorno, e almeno duecento delle mie cinquecento ore su Destiny le ho passate insieme a lui.

A Borderlands, comunque, poi ci ho giocato. Borderlands 2, per la precisione, quando l’hanno dato col PlayStation Plus, nella versione rimasterizzata, nel giugno del 2019. Quasi dieci anni dopo. Ci ho fatto un paio di ore, per poi disinstallarlo. Meglio Destiny, effettivamente. Se non altro perché posso ancora giocarci con Domenico. Dannati looter shooter: prima ti fanno assuefare e poi, quando finalmente riesci a liberartene, si portano via un pezzo di cuore.

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