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Mary Skelter: Nightmares funziona fino a che non funziona più

Mary Skelter: Nightmares funziona fino a che non funziona più

Mi perdonerete se, non trattandosi di un gioco in anteprima (il secondo capitolo esce, tipo, domani), lascerò che cerchiate la trama di Mary Skelter: Nightmares nella vasta e sconfinata rete e andrò direttamente al punto, scorrendo la checklist di cosa Mary Skelter: Nightmares offriva al giocatore:

  • dungeon crawling in dungeon poco più grossi della Francia;

  • grinding a manetta con boss/livelli segreti che quasi ti mettono il cartello "Ripassa più tardi";

  • visuale solo in soggettiva;

  • protagonista bimbo buono, ingenuo e puro;

  • team composto unicamente da “cattive ragazze” bellissime, ispirate alle fiabe più famose.

Al mio primo approccio, mi trovai di fronte all'evidenza che, sulla carta, un solo punto poteva interessarmi, lascio ai lettori lo scoprire quale.

Un suggerimento.

Ottanta ore di gioco effettivo dopo, prendo atto di aver dedicato quasi ogni sera libera a premere avanti, avanti, destra, avanti, destra, avanti, sinistra. Combattimento.
Ripetere.

Eppure, se dovessi puntare il dito su un fattore specifico di coinvolgimento, non me ne verrebbe in mente uno.

Il gameplay di Mary Skelter: Nightmares è quello di un dungeon crawler standard, con mappe labirintiche non procedurali disegnate su foglio quadrettato, da esplorare quadretto per quadretto per trovare tutti i tesori, tutti i punti "power-up", tutti gli indizi, o anche solo per completare la tal sub-quest assegnata dal classico "questificio". Ci sono le trappole e ci sono le false pareti da superare grazie al potere di qualche nuova aggiunta al team, motivando così la classica percentuale di backtracking.

Crawl, crawl, crawl your team gentle down the jail…

Per insaporire un pochetto la ricetta, si aggiunge la novità di avere il main character in funzione di puro supporter, con il compito di prevenire l'entrata in berserk delle belle combattenti, amministrare i consumabili e, in caso estremo, fare da scudo umano.
Altresì, agli incontri casuali si aggiunge la presenza dei Nightmare, i boss finali di ogni dungeon che, invece di attendere tranquilli nelle loro stanze, a random possono presentarsi in condizione di invincibilità di fronte al party, obbligandolo a fuggire, ingaggiare per riuscire a fuggire... oppure soccombere senza appello.

Grazie a queste due caratteristiche specifiche, all’inizio, ogni battaglia “alla pari” ha sempre una certa componente di sfida, visto che, dopo un po’ di mazzate ricevute, potendo sanare una sola combattente per turno ed essendo spesso costretti a saltare una “bonifica” ogni due, il giocatore deve pregare che il “limit break” della combattente non si trasformi in “stato di furia” (grazie G. ), con conseguente rischio di trovarsi una mina innescata nel party.

La sfida con i Nightmare, poi, che sia a causa di una fuga mancata o sia lo scontro finale, è resa ulteriormente difficile dal fatto che sono gli unici a poter guadagnare posizioni nella coda delle azioni, rendendo la minima indecisione sulle azioni da compiere un passo ulteriore verso la sconfitta.

Ready? Fight!

La grafica del gioco è estremamente curata, pur in evidente economia: ogni dungeon ha una sua "personalità" ben definita, mentre protagonista, belle guerriere e personaggi di contorno sono disegnati da un solido professionista del genere "bishojo". Forse, gli esseri meno definiti sono proprio i nemici, che in alcuni casi sono ben disegnati e in altri sembrano un patchwork frettoloso di cose schifide. Ma l'economia di cui sopra si sente particolarmente quando, dopo ore ed ore, si realizza che, opening compresa, non si è vista una animazione che fosse una: ogni dialogo, transazione, intermezzo è stato accompagnato da schermate statiche stile "visual novel" (anzi, stante la totale assenza di scelte: "Kinetic Novel").

La parte audio è magari penalizzata da una colonna sonora che sembra presa dai marketplace per RPG Maker ma riesce poi a farsi valere grazie alla valida sigla di apertura e, sopratutto, grazie a un doppiaggio in lingua originale di livello tale da SCONSIGLIARE di utilizzare il monotono doppiaggio inglese. Ogni voce calza il personaggio come un guanto e, non importa quante volte le sì senta, il tono sexy-animalesco delle giovin pulzelle quando vanno nella modalità “Massacre” o, peggio, “Blood Skelter”, non può lasciare indifferenti. Almeno non noi maschietti.

Modalità “Fare Brutto” AKA “Massacre Mode”.

Infine, la sceneggiatura si impegna davvero tanto a non cadere nelle peggio banalità che potrebbero essere incoraggiate dai presupposti: innanzitutto, il protagonista non incoraggia il giocatore a desiderare (autolesionisticamente) di farlo morire male. È coraggioso, buono e puro ma non è completamente stupido e riesce persino ad avere gli stessi sospetti che prendono il giocatore. Certo, siamo lontani dai personaggi “dalla doppia verità” della migliore Squaresoft o da quelli sempre “in controllo” della serie Persona, ma posso dire di aver visto di peggio (Mind: Zero o Tokyo Mirage, giusto per fare nomi).

Le combattenti, a loro volta, sono prese dalla lista della spesa dello shonen-harem: abbiamo Amicadinfanzia, Energica, Modesta, Morbidona (che, come sempre, è anche quella con le stats più sbroccate), Gnometta, Principessa, Vanitosa, Inquietante Quatrocchi, Bambina Selvaggia ed Esaltata eppure, per merito principalmente delle doppiatrici, che riescono a rendere viva persino una afasica, e di dialoghi non completamente decerebrati, arrivano ad avere dignità di nome (nel caso interessasse: Alice, Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Bella Addormentata, Pollicina, Kaguya, Cenerentola, Gretel, Raperonzola e Hamelin). Agiscono insomma come “personaggi” e non come bamboline, sono sempre coerenti con loro stesse e con il loro nome fiabesco, senza farlo diventare un comodo MacGuffin per definire la loro personalità, ragionano su ciò che accade e quando non dicono ciò che al giocatore è evidente, è perché hanno deciso di nasconderlo a loro stesse, per paura o per non ferire le compagne.

Rispetto a giochi come Bravely “Ammazzatelinsettodimmerd” Default e I Am Setsuna, in cui i personaggi si portavano “L’Elefante nella Stanza” in giro col carretto per interi capitoli, direi che non è poco.

Team Donne di Menare.

Insomma, nessun aspetto di Mary Skelter: Nightmares eccelle, ma ognuno dà l’impressione di essere stato pensato, implementato e provato per benino.

Per il piacere della retorica, avevo pensato di paragonare questo gioco a una di quelle cucine che, pur non essendo “di design” o di particolare pregio, funzionano, sono facili da pulire e danno sempre l’impressione che ogni cosa che si cerca sia sempre lì, esattamente a portata di mano.

Coraggiosa e razionale, Alice merita il suo ruolo di “prima eroina”.

Purtroppo, questo è stato valido solo fino all’ultimo dungeon e al combattimento finale. Con una scelta produttiva che non si riesce a spiegare, non solo l’ultimo dungeon è, innanzitutto, graficamente, noioso, ma per qualche motivo, tutte le magagne che il giocatore percepiva ai margini del gioco conquistano, improvvisamente, il palcoscenico.
L’obbligatorio grinding imposto fin dall’inizio ha ormai dispiegato i suoi frutti, al punto che l’ultimo dungeon è una sequenza di combattimenti sotto-livellati che si concludono entro tre attacchi al massimo e persino gli scontri casuali con i Nightmare, i terrificanti Nightmare, game over quasi istantaneo almeno fino a metà gioco, sono liquidati senza quasi temere reazione.

In un gioco che era stato fino a questo punto una Kinetic Novel senza scelte, si introducono da un momento all’altro (e sempre dopo lunghi spezzoni privi di possibilità di salvare) due scelte funzionali ad ottenere il “True Ending” ma che sono basate la prima su un ragionamento abbastanza fumoso, che obbliga a ricordarsi di un dialogo avvenuto circa settanta ore prima, e la seconda sulla pervicace attitudine del giocatore a esplorare palmo a palmo ogni anfratto. Tradotto in altri termini, per ottenere il True Ending, il giocatore deve essere dedito ai limiti dell’autismo, molto fortunato o con la pagina del walkthrough aperta su un secondo dispositivo.

Ma anche Jack aiuta il giocatore a non sentirsi al comando di un deficiente.

Il finale stesso, a sua volta, mostra oggettive debolezze di scrittura e manca di soddisfare le legittime aspettative del giocatore di vedere un qualsiasi destino “compiersi”. Si rimane un po’ così, con un antagonista il cui maggiore peccato non è quello di essere prevedibile, ma di avere motivazioni e origini campate un po’ per aria, e un “E tutti vissero felici e contenti” che non è niente di più che una affermazione senza quasi motivazione o conseguenza.

Un esito deludente, per un gioco che aveva fatto sperare di trovarsi di fronte a un sobrio gioiellino e che, intendiamoci, è stato divertente per nove decimi della sua durata. Peccato che sia inciampato proprio nel decimo finale.

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