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Sete di sangue

Sete di sangue

Dietro alla foto enigmatica che potete ammirare in apertura di questo editoriale, si nascondono la chiusura di un cerchio e l’abbraccio caloroso a un tormentone che – chi ci segue assiduamente da sempre dovrebbe saperlo – ci accompagna da oltre un lustro. È un tormentone nato dalle dita di Nabbacchio, a destra nella foto, e non solo dal suo pollice, ed è un tormentone che nel mese di giugno tornerà di grande attualità. Arriva, finalmente, dopo tanta attesa e dopo tante polemiche, The Last of Us Part II, pronto a mettere un punto esclamativo sulle esclusive segnanti per questa generazione di console (sì, lo so che c’è anche Ghost of Tsushima a luglio, e senza dubbio promette bene, ma insomma, eh).

Il secondo episodio firmato Naughty Dog è stato talmente al centro delle chiacchiere da essere diventato una specie di Game of Thrones, una di quelle cose su cui sai tutto anche se non sei stato lì a seguirne le novità con grande attenzione. E gli annunci, e la grafica stellare, e chi si è convinto che sarebbe uscito su PlayStation 5, e le polemiche sulla violenza, e le demo che sembravano troppo scriptate, e la gente che borbotta perché non c’era bisogno di un seguito, e le polemiche sull’omosessualità, e fuori la politica dai miei videogiochi, e i rinvii a causa della pandemia, e quelli che sostengono che la pandemia sia una scusa, e il leak, e gli spoiler, e la gente che s’incazza a morte perché non apprezza quel che si vede negli spoiler e adesso, ultima novità, lo spiazzamento di fronte all’incredibile realismo del nuovo trailer di gameplay e a quanto la violenza mostrata sappia mettere a disagio.

Quest’ultima cosa, lo ammetto, davanti al trailer, non l’ho provata in nessuno modo. Sarà che sono un avido consumatore di film horror, e quindi sono magari più anestetizzato di altri alla violenza filmica, ma proprio non mi ha colpito in modo particolare. Ero più concentrato sulla qualità grafica, senza dubbio notevole, ma anche sul pensiero che la generazione sta davvero finendo, perché la verità è che anche a quella qualità grafica sono ormai un po’ assuefatto e ha smesso di stupirmi come alla prima presentazione. D’altro canto è tutto sommato normale, quando segui lo sviluppo di un gioco per anni, ed è capitato in tanti altri casi, penso per esempio ai bei tempi di Heavy Rain. Ma sto divagando, il punto del discorso è la violenza realistica e tragica, che ha colpito in maniera così forte molti osservatori e che, non voglio essere frainteso, potrebbe tranquillamente farmi lo stesso effetto se e quando la “praticherò” in prima persona giocando, perché l’interazione cambia decisamente le cose. E questo mi sembra un tema molto interessante.

L’horror migliore è proprio quello che ti mette a disagio, che ti fa sentire sporco, sbagliato, che non ti lascia con un senso di tranquillità e soddisfazione, perché il male vero non è il cattivone magari sconfitto sul finale ma qualcosa di più profondo. Questo tipo di sensazione, questo lavoro sul piano tematico, nei videogiochi horror non emerge in maniera costante e, spesso, anche quando riesce a farlo, tende a risultare un po’ disinnescato dal gameplay, dall’interazione. Se da un lato i videogiochi sono molto bravi a lavorare sul disagio del babau, sul destabilizzarti attraverso suggestioni inquietanti, spaventose, sul farti cagare sotto, dall’altro, raramente riescono a farti davvero sentire sporco. Non dico che non ci siano mai riusciti ma mi sembra un tipo di discorso che non emerge molto spesso, nonostante l’interazione, il fatto di essere noi a compiere determinate azioni, si presti in maniera devastante a ottenere qualcosa del genere. E invece, se andiamo a vedere, i giochi più celebrati per la loro capacità di lavorare su questo tipo di sensazioni tramite il gameplay sono altri, penso per esempio a Papers, Please o This War of Mine.

Sbaglierò, ma credo che questo avvenga principalmente per due motivi. Uno è che la polemica è sempre dietro l’angolo e andarsela volutamente a cercare non è magari poi così saggio, pubblicità indiretta o meno, quando lavori su giochi dal budget stratosferico e che mirano a un pubblico ampio. Mi viene in mente l’esempio tragicomico di No Russian, la missione di Call of Duty: Modern Warfare 2 in cui era possibile sparare su una folla di innocenti. Possiamo discutere di quanto fosse impacciata la realizzazione della cosa e di come fosse fuori luogo in quel gioco, in quel contesto, ma l’idea di dare un senso un po’ differente all’atto del premere il grilletto, o anche solo di dargli un senso, non era necessariamente sbagliata. Specie, poi, all’interno di un genere come quello degli sparatutto, caratterizzato proprio dal togliere ogni significato all’atto di uccidere, interpretandolo come pura meccanica di gioco e nulla più, spesso anche in contrasto diretto con ciò che viene raccontato sul piano narrativo (a questo punto diventa inevitabile menzionare quel dissociato mentale di Nathan Drake, che si pone limiti morali nelle cutscene e diventa pluriomicida durante il gameplay).

E, ecco, il problema sta forse lì, in quello che poi identifico come altro motivo. In un gioco nel quale l’azione ha un ruolo preponderante e si trascorre gran parte del tempo massacrando avversari, diventa difficile dare un peso reale alla violenza. Certo, ci possono essere momenti in cui il racconto riesce a sottolineare efferatezza, brutalità, insensatezza nel modo giusto, ci può essere tutta una prima fase in cui rimani spiazzato dal realismo, anche solo estetico, e dalla caratterizzazione dei personaggi, ma sulla distanza, quando trascorrie magari venti ore di gioco massacrando decine e decine di avversari, subentrano altre dinamiche. Assorbi quel che stai facendo, lo interiorizzi come meccanica di gioco, ripetizione, routine, elementi da comprendere, scardinare, padroneggiare per ottenere il miglior risultato possibile. La violenza diventa elemento di sfondo, in un contesto in cui “vedi la matrice” e ragioni solo in termini di vantaggi o svantaggi. Magari qua e là emergono elementi narrativi che ti fanno uscire da quello stato mentale, anche in modo forte, ma poi ci rientri.

Chiaramente, questa sorta di assuefazione alla violenza, desensibilizzazione, riduzione della morte altrui a mezzo per ottenere altro, diventa essa stessa parte del discorso tematico, specie poi in un gioco ad ambientazione post-apocalittica, nel quale si racconta letteralmente di persone ridotte dal contesto a ragionare in quel modo. Il problema è che mi chiedo se sia possibile parlare anche d’altro o se, a conti fatti, la natura stessa di uno sparatutto tripla A, di gioco che non può fare a meno di proporti carne da macello a vagonate per trascinarsi attraverso un viaggio di morte e distruzione lungo decine di ore, finisca per forzare la mano e circoscrivere le tematiche.

Questa non vuole essere una critica a The Last of Us II, anche perché non ho i mezzi per portarla avanti, non avendoci messo mano e non avendo tra l’altro curiosato fra i leak e gli spoiler. È più un pippone mentale che m’è saltato fuori guardando quel trailer e leggendo i commenti online. È possibile ragionare davvero sul farti sentire a disagio per la violenza che esprimi senza limitare a poche occasioni quegli atti di violenza? Alla quarantaduesima uccisione brutale di personaggi visivamente impeccabili, perpetrata mentre tieni sotto controllo l’ambiente, stai dietro alle munizioni, metti in pratica tutto ciò che hai imparato per “sconfiggere” il sistema di gioco, può ancora esserci quel senso di disagio che molti (io no, lo ripeto) hanno provato di fronte al trailer? Oppure sarà già tornato, magari da un pezzo, ad essere solo un gioco, che ogni tanto si mette in pausa per regalare emozioni con racconto e messa in scena? Vai a sapere. I commenti che ho letto sui social in questi giorni parlano di un gioco molto attento al lato umano, in maniera forte e costante. Magari, in Naughty Dog hanno trovato la chiave per far funzionare una cosa del genere. Suppongo che lo sapremo a breve.

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