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 L'equivoco di Heavy Rain | Racconti dall’ospizio

L'equivoco di Heavy Rain | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Lo so che come attacco è sempre il mio solito ricicciato eccetera eccetera, ma A) siamo pur sempre all’ospizio, e B) effettivamente è pazzesco pensare che siano già trascorsi dieci anni dall’uscita di Heavy Rain, soprattutto perché mi sembra ieri che se ne faceva un gran parlare sulle varie testate e persino qui su Outcast, sito/podcast/piattaforma™ che continuo ostinatamente a considerare giovane nonostante il sito/podcast/piattaforma™ in questione non faccia che sbattere in faccia al mondo il suo essere una roba di vecchi fatta per vecchi e che parla di robe da vecchi. But still™, immagino sia pure un problema mio, visto che tendo a processare l’esistenza per cicli tematici lunghi almeno cinque anni, e a separare il parlare di giochini tra “i bei tempi delle riviste cartacee” e “internet, social e diavolerie moderne”.

(Lo so cosa state per dire: «OK boomer!», che tra l’altro è un bruttissimo tormentone soprattutto qui da noi, dove a utilizzarlo sono spesso i trentacinquenni che vogliono fare i simpa con i ventenni che tanto non se li inculano).

(E comunque tengo a precisare che sono paper-free da 2012).

Ma si diceva di Heavy Rain, prima che mi perdessi totalmente in vaccate, e del fatto che mi ronza ancora nelle orecchie il mormorio di una stampa specializzata che ricordo – mi pare, vai a sapere - abbastanza divisa tra quelli che «wow, tette, thriller, storia matura!» e gli altri che «sì, OK, ma dov’è il gioco?», oltre che sulla pronuncia di “Cage”.

Dieci anni. Che fortunatamente non sono serviti soltanto a traghettare i sessantenni su Facebook o gli americani da Obama a Trump, ma anche a ridefinire i limiti di quello che si può scegliere di fare o non fare - soprattutto, non fare – con i videogiochi. E piaccia o meno, stia sulle balle o meno, una buona fetta del merito di questo cambiamenti credo sia giusto attribuirla a monsieur De Gruttola, che ha preso il know-how e la credibilità accumulati con Omikron: The Nomad Soul e Fahrenheit e, anziché seccarli in sciampagnini, è andato a metterli sul tavolo di Sony, sparando su un’esperienza persino più rischiosa. Un’esperienza d’autore, dai, al netto di chi gli vuole male. Adoperata per venderci la maturità di PlayStation 3 quanto vi pare, in un mercato che si stava ancora abituando all’idea dei titoli indipendenti, e per di più in un momento mediatico tribolato dall’avanzare di smartphone, social media e serie TV. Tutte evenienze che in un modo o nell’altro hanno finito per incrociare lo sviluppo del gioco di Quantic Dream che, vale la pena di ricordarlo, è stato annunciato nel 2006 ma ha visto la luce soltanto quattro anni dopo.

«Menealo, un pochito. Mmmmh. Menealo, suavecito».

Si è detto e scritto molto (??) del tiro cinematografico di Heavy Rain, ma al netto dei rimandi a roba come Rashomon, Americani o Seven, trovo che smarcando le vecchie avventure grafiche da un certo tipo di struttura a enigmi, Cage abbia finito per esaltarne la narrazione dilatata e spezzettata, avvicinandosi, sia in termini visivi che linguistici, proprio alle serie televisive.

O Magari sbaglio e mi sto facendo fregare dalla direzione intrapresa da Telltale a partire da The Walking Dead, decisamente più centrato del cugino francese in termini di scrittura, ma senz’altro debitore verso quest’ultimo anche solo per il cancello che gli ha lasciato aperto.

Poi, sì, per carità, da qui a sostenere che la direzione intrapresa dalla narrazione interattiva durante gli ultimi anni sia stata tutta merito di Cage e compagnia ne passa. Ci vedo più una questione di Zeitgeist, una convergenza di occasioni e propositi provenienti da fonti tutto sommato abbastanza diverse tra loro come Jenova Chen, Ken Levine, Steve Gaynor e Fullbright, Davey Wreden e, di nuovo, Telltale, la cui spinta creativa non sarebbe andata probabilmente così in là senza i modelli di business e le piattaforme di vendita giusti.

Vuoi per questo, vuoi per quello, tra designer e utenti, ha finito per passare l’idea che un videogioco possa funzionare bene anche appoggiando il grosso del carico sulla cosiddetta mimicry e riducendo al minimo la competizione tipica dell’agon (per metterla da ganassa con Callois), e mica per niente Cage se ne è venuto fuori con la definizione di “interactive drama”, che guai a chi glie la tocca.

«Il guanto magico è uno sballo» (2).

A partire da Heavy Rain, quel tipo di approccio è stato declinato dozzine di volte sia fuori che dentro la scena indipendente, spingendo a seconda dei casi sul punto di vista, sulla messa in scena o sul montaggio, e trovo piuttosto eloquente che al termine della catena sia potuto emergere un gioco come Death Stranding. E lo dico sia per le circostanze di mercato impensabili in altri momenti, sia per un certa affinità tra Kojima e Cage, entrambi game designer di prim’ordine scambiati spesso, loro malgrado, per registi wannabe prestati al videogioco.

E per carità, son capace anch’io di cogliere le ragioni di questo equivoco, ma proprio come trovo miope o disonesto sminuire il ruolo del gameplay nei vari Metal Gear o in Death Stranding, a oggi, quello che mi è rimasto addosso di Heavy Rain non sono sicuramente le sue scelte narrative o di scrittura (banali se non addirittura pacchiane), ma le idee di gioco spese al servizio delle piccole cose.

Ma non solo quelle piccole, dai. A distanza di anni, quella roba del chi è chi continua a piacermi.

Mi riferisco a quei momenti come la preparazione di un pasto, la cura di un compagno ferito o l’accudimento di un neonato, che oltre a puntellare il ritmo della narrazione, costruiscono un bellissimo castello nella testa del giocatore. Se ripenso all’esecuzione di alcune trovate e alla loro ergonomia, persino nell’ottica meccanica dei quick time event, non posso che fare un grosso chapeau a Cage e a Sony: al primo per l’inventiva e il coraggio dimostrati, alla seconda per averci creduto con i i soldi e con la faccia, e per essere riuscita a comunicare il gioco così bene da renderlo un cult e facendo, in definitiva, un favore alla roba simile che è arrivata dopo.

Amici! Casomai voleste (ri)scoprire Heavy Rain e voleste farlo tramite Epic Game Store, vi segnaliamo senza alcuna vergogna che acquistandolo tramite questo link ci farete avere una piccola percentuale di quanto speso, senza sovrapprezzi per voi.

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