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La Seattle di The Last of Us II, tra Breaking Bad, i Pearl Jam e Snake Eater

Che The Last of Us Parte II sia stato uno fra i miei GOTM (Giochi della Madonna) dell’anno scorso, da queste parti non l’ho mai nascosto, anche se poi ho scelto di piazzare sul gradino più alto Persona 5 Royal. Ma a quei livelli, credetemi, è solo questione di millimetri, dettagli e sensibilità; forse anche solo per il fatto che il Giappone mi intriga più degli Stati Uniti, ma per il resto stiamo parlando di due produzioni che per figaggine tutto sommato si equivalgono, e credo che se avessi scelto con una conta, non avrei fatto torto a nessuno.

Detto questo, la ragione che mi ha spinto ad amare così tanto il gioco di Druckmann e soci è legata soprattutto alla gestione dello spazio, esercitata tanto in termini di atmosfere che di level design. Con questo non intendo sminuirne la direzione artistica, davvero fantastica, né tantomeno la scrittura dei personaggi o il racconto. Diversamente dal suo predecessore, che non aggiungeva granché ai tanti epigoni di McCarthy, in questo caso siamo di fronte a uno schema che ricorda da vicino quello di Breaking Bad e che, proprio come l’opera di Vince Gilligan, affonda le sue radici tanto in Shakespeare, quanto nei sei volumi elaborati dallo storico inglese Edward Gibbon e raccolti sotto al titolo Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano.

Se cercate su Google The Last of Us 2 + Breaking Bad, esce questa roba qui.

In entrambi i casi, oltre alla portata tragica dei temi di fondo e una sorta di fato che sembra guidare le azioni dei vari personaggi (preoccupandosi soprattutto di punirli quando le pulsioni di vendetta o potere sconfinano nell’hybris), abbiamo a che fare con un conflitto tra “regni” - che potete benissimo chiamare bande, gruppi, civiltà o quello che vi pare - più o meno evoluti ma sempre organizzati e tesi verso una dimensione comunitaria, e che, nell’obiettivo di non soccombere al caos che li circonda e allargare il proprio bacino di risorse, finiscono per entrare in conflitto gli uni con gli altri.

In Breaking Bad, tutte le principali forze in campo - cartelli della droga, DEA, eccetera - al netto della violenza, tendono a seguire un codice, delle regole, per quanto queste possano apparire distorte allo spettatore.

Lo stesso vale per i membri della comunità di Jackson o per fazioni come i "Lupi" del Washington Liberation Front e i Serafiti, che pur agitati da dottrine e metodi diversi, perseguono a conti fatti un fine costruttivo e non distruttivo. In fondo, la decisione da parte degli sceneggiatori di modificare via via la prospettiva del giocatore serve soprattutto ad allargarla; a mostrare pregi e difetti di tutte le culture in ballo, scongiurando approcci manichei.

Non dico che ci vivrei, ma ho visto apocalissi peggiori.

A non essere oggetto di indulgenza sono invece i “barbari”, coloro che avanzano nel caos senza perseguire alcun tipo di ideale sociale ma, anzi, consumando quanto trovano sul proprio cammino come uno sciame di cavallette. Gilligan, non senza una certa lungimiranza, affibbia questo ruolo ai suprematisti bianchi che, durante l’arco finale della serie, distruggono tutto ciò che Walter White ha costruito (OK, si tratta di un impero della droga e del crimine, ma è relativo; il punto è sempre la tensione all’ordine), costringendo in catene il povero Jesse. Dal lato di Naughty Dog, invece, abbiamo le Serpi, che pure non si fanno problemi a schiavizzare e sacrificare innocenti, e attorno ai quali Druckmann e la sua co-sceneggiatrice, Halley Gross, scelgono di non costruire alcun meccanismo empatico (diversamente da quanto fatto con gli altri schieramenti in campo, nel bene o nel male).

Chiusa questa parentesi su trama e personaggi, entriamo finalmente nel merito della componente spaziale di The Last of Us 2 che, come accennato sopra, mi è garbata un sacco, non tanto – o non solo - per una questione geografica, ma soprattutto a livello di design e riferimenti. Personalmente, non sono mai stato a Seattle né l’ho mai rimediata granché attraverso il cinema o che altro, e se mi dite che da parte degli sviluppatori c’è stato un gran lavoro nel ricostruire i luoghi chiave della capitale del grunge, beh, mi fido.

Proprio riguardo alla musica, tra l’altro, il gioco si preoccupa di illustrare il passato della città giusto in un paio di occasioni, tra negozi, dischi o poster, ma poi si diverte anche a prenderlo in giro, facendo suonare a Ellie quella cover di Take On Me anziché puntare su roba più acconcia tipo Alice in Chains e compagnia.

La trovata è curiosa, perché da un lato fa il paio con la passione di Joel per il cinema di menare degli anni Ottanta (nel quale il gioco finisce pure per specchiarsi in un paio di occasioni, a livello metalinguistico), ma dall’altro costruisce motivo di dissonanza nei confronti dell’uomo che, invece, è più tipo da Pearl Jam, come prova la sua esecuzione di Future Days.

Del resto, parliamo di un tizio nato all’inizio degli anni Ottanta e successivamente schiantatosi in pieno contro l’apocalisse (cosa che, al netto dei casini, ha perlomeno minimizzato il continuo revival nostalgico che affligge la nostra linea temporale). Anche osservandone indole e trascorsi – texano di quelli ruvidi, motociclista e amante del folk rock – ci sta che sia venuto su ascoltando Neil Young e i Nirvana, così come ci sta che Ellie abbia preferito imparare i pezzi degli a-ha, in via dell’inevitabile conflitto generazionale.

Curioso pure che gli anni delle pennette alla vodka, probabilmente, nel mondo di The Last of Us abbiano finito per costituire l’ultima “età dell'oro”, visto che poi è stato tutto uno sbiadirsi, tra la depressione dei Novanta, l’undici settembre, la crisi finanziaria del 2007 e, beh, l’infezione da cordyceps.

In tutto questo mi sono distratto un’altra volta e ho preso a divagare. Giuro che non lo faccio più, o almeno ci provo.

Dicevamo, Seattle, spazio. OK. A fare il riassunto del riassunto, The Last of Us 2 mi ha fornito quello che avrei voluto ricevere da Death Stranding, e giuro che se il me stesso del 2017 avesse modo di leggere questa frase ci rimarrebbe di sasso. Il fatto è che dopo anni di tentativi e goffaggini, cominciati con Uncharted 2: Il covo dei ladri, per la prima volta i ragazzi di Naughty Dog sono riuscirti a fare lo stealth. E non uno stealth del tipo “Sì, vabbè, ma così sono buono pure io”, ma proprio uno stealth-stealth. Alla giapponese, capito, con tutte le intelligenze artificiali messe giù a modino e quel gusto geometrico per il level design. Un level design sfrenato soltanto all’apparenza, ma sotto sotto estremamente controllato, in modo da fornire al giocatore la sensazione di essere totalmente libero nelle sue scelte, mentre è già stato tutto stabilito a monte, sia in caso di intrufolamento felpato, che di rambata.

Si tratta di un tipo di design nel quale Hideo Kojima è campione assoluto, e che negli anni in molti hanno provato a imitare, senza riuscirci (quello che si è avvicinato di più, se lo chiedete a me, è stato Hidetaka Miyazaki, anche se non è detto che lo abbia fatto di proposito).

Bel tentativo, Nat.

Un lavoro sullo spazio che è stato portato al limite da Metal Gear Solid 3: Snake Eater, dopodiché il nostro ha iniziato a sperimentare e muoversi su un terreno diverso. Misurandosi prima con la sottrazione e i vincoli intrinsechi di Metal Gear Solid: Peace Walker, per poi aprirsi alle dinamiche open world con Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, dove ha separato i concetti di infiltrazione e spazio – approfondendo verticalmente la prima, a dismisura, e allargando il secondo, pure a dismisura – per poi rimontare tutto e vedere l’effetto che fa. Ed è un gran bell’effetto, meraviglioso, splendido, eccetera, ma a un certo punto si sente che qualcosa deve essergli sfuggito di mano in termini di equilibrio, tant’è che con Death Stranding, per certi versi, ha deciso di ripartire dalle basi.

Una delle famose "basi".

Resta che mentre Kojima si divertiva a pasticciare con le armi occidentali, quelli di Naughty Dog si sono messi a smontare, analizzare e studiare in lungo in largo le spade dei samurai, e alla fine – Eureka! - sono riusciti a carpirne i segreti. Il risultato, come ho detto, è The Last of Us Parte II, forse la cosa più Snake Eater che mi sia capitata tra le mani nel corso degli anni, pur non essendone un clone (sarebbe ingiusto, così come sarebbe stato ingiusto intitolare questo pezzo “The Last of Us Parte II è Snake Eater scritto bene”, idea che per un secondo mi ha sfiorato la cabeza, prima di ricordare che Snake Eater è effettivamente scritto bene) né tantomeno una cover, per quanto il paragone musicale suoni bene (ah ah; anzi, a-ha).

Semmai è un omaggio, ecco. Un omaggio da parte di Druckmann verso un autore che ama, e che probabilmente ha rappresentato nella sua formazione di designer quello che Neil Young è stato per i musicisti grunge (qui il paragone musicale ci sta tutto, dai).

Notice me, senpai!

Proprio come in Snake Eater, gli spazi di The Last of Us Parte II sono delle scatole che fanno finta di non esserlo, magari scopando le tracce sotto l’erba alta o coprendole di foglie secche. Non che il giocatore sia fesso, ché in fondo tutta la parte ambientata nel teatro è un po’ un’ammissione di colpa; però non fa niente, soprattutto finché il trucco funziona e contribuisce a metter su tensione. Tipo quando Abby esce da Chinatown per ritrovarsi davanti a quella che sembra una zona di guerra del sud-est asiatico, o appena Ellie inizia a strisciare ferita lungo il parco tra i fischi dei serafiti: se come il sottoscritto siete passati da Kojima, quella non è più Seattle, quella è la taiga russa di Tselinoyarsk. Solo più grande, più malata ed eventualmente più pericolosa. E tra strisciate, imboscate e sgozzamenti a tradimento, ti pare che stavolta a servirmi il serpente ci abbia dovuto pensare un israeliano naturalizzato statunitense, anziché un giapponese?

Questo articolo fa parte della Cover Story “Turisti per caso”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.