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Hidetaka Miyazaki vs. Fumito Ueda al Reboot Develop Blue 2019

Hidetaka Miyazaki vs. Fumito Ueda al Reboot Develop Blue 2019

A una lettura superficiale, l'idea di accoppiare il vate dei soulslike e il poeta del minimalismo a base di colossi e toponi può apparire bizzarro ma in realtà, a pensarci bene, i punti in comune fra l'approccio al design di Fumito Ueda e quello di Hidetaka Miyazaki non mancano. E forse è per questo che l'organizzazione del Reboot Develop Blue 2019 ha deciso di accoppiarli nel keynote d'apertura, in una chiacchierata informale. Dopo essersi scusati perché avevano lasciato a casa le giacche di pelle e aver ribadito la loro timidezza, che li mette in difficoltà nel salire su un palco e li porta a rilasciare meno interviste possibile e chiedere che vengano scattate poche foto (e nonostante questo, quel matto di SWERY, seduto in prima fila, mandava l’evento in diretta su Instagram), i due hanno attaccato chiacchierando di animazioni. Ueda nasce come animatore, e infatti si tratta di un ambito a cui dona sempre grande attenzione, perché lo ritiene fondamentale nel creare connessione emotiva fra giocatore e gioco. «Le animazioni raccontano la vita e io voglio replicarne la bellezza e le emozioni». Per questo motivo, Ueda cura in maniera maniacale i singoli fotogrammi, andando a correggere tutto ciò che di innaturale nasce dalla generazione di animazioni per videogiochi. Più in generale, per Ueda, è fondamentale rendere nella maniera giusta la presenza dei personaggi non giocanti che popolano i suoi mondi: questi devono funzionare, risultare naturali, interagire fra di loro in modo credibile per garantire quel senso di connessione.

Il punto di vista di Miyazaki è, forse prevedibilmente, diverso, anche se pure per lui è fondamentale curare le animazioni con grandissima attenzione: ha per altro spiegato che, ai tempi di Demon's Souls, il suo studio fece la scelta importante di assumere animatori puri, da dedicare al compito. In precedenza, le animazioni venivano affidate a chi si occupava della modellazione dei personaggi. Per il creatore di Dark Souls, comunque, il gameplay è alla base di tutto e lui sacrifica volentieri il senso di realismo, l'aderenza delle animazioni al mondo reale, in nome di controlli precisi, reattivi, un sistema di gioco in cui attacco e difesa funzionino in maniera impeccabile.

Dalle animazioni all'estetica in senso più ampio, il passo è breve e il moderatore del keynote ha chiesto a Ueda se abbia mai pensato di utilizzare ambientazioni più legate alla tradizione nipponica e ai mondi che sente maggiormente vicini. Ovviamente a Ueda piacerebbe farlo, ma viene frenato dal timore che il pubblico possa non comprendere o apprezzare fino in fondo uno scenario così "localizzato". Al di là di quello, per lui è fondamentale avere libertà totale a livello creativo e «se ti leghi troppo alla realtà, finisci per ritrovarti costretto da una serie di regole rappresentative.» Miyazaki, di contro, tende a creare giochi molto connessi al mondo reale, come è il recente Sekiro: Shadows Die Twice. D'altro canto, però, ha spiegato, anche quando crei un gioco legato a un contesto reale, si tratta pur sempre di un'opera di fantasia, assemblata in base a regole malleabili. «Non è che in Giappone ci siano davvero i demoni.» Per cui, alla fin fine, fai comunque quello che vuoi. Anche Miyazaki teme una certa difficoltà di comprensione e accettazione nei confronti di opere fortemente legate a un luogo o a una cultura. Sviluppare Sekiro è stato divertente, anche perché si è mosso in aree diverse rispetto ai suoi soliti scenari, ma nonostante il successo ottenuto, il dubbio che l'ambientazione abbia limitato il pubblico potenziale rimane.

Un altro aspetto che accomuna i giochi dei due è la tendenza a proporre personaggi che parlano molto poco. Ueda, lo dice chiaro e tondo, non ama molto usare le parole e preferisce concentrarsi sui controlli. Vuole che i giocatori si focalizzino su quello: controlli, interazione, meccaniche, senza perdersi dietro a una narrazione fiume. Ma d'altro canto, dice, escono sempre più giochi strapieni di parlato, testo, dialoghi, quindi non esclude di volersi confrontare maggiormente con una visione diversa sul tema. In Sekiro si parla un po' di più, ammette Miyazaki, ma entrambi i designer ribadiscono con forza che si tratta di una scelta figlia del design e del gameplay. Allo stesso tempo, però, Miyazaki pensa che seppellire il giocatore di informazioni sia sbagliato, perché gli levi il gusto della scoperta e la possibilità di essere lui a "riempire" il mondo di gioco. Questo non significa, comunque, lo sottolinea anche lui, che un approccio diverso sia necessariamente sbagliato e che non possa decidere di tentarlo.

In generale, comunque, entrambi ritengono che la storia sia un qualcosa che si aggiunge in una seconda fase dello sviluppo. Certo, in avvio hai già in testa il racconto a grandi linee, ma lo sviluppo concreto, nei dettagli, arriva successivamente, perlomeno dopo la fase di prototipo. Per Ueda, sono la grafica e l'estetica a dettare il concepimento del gioco, che si sviluppa poi in maniera organica, anche in base a ciò che la tecnologia permette di fare, anche in base alle sue evoluzioni in corso d'opera. E mano a mano, le varie componenti tecniche, di design, di interazione, dettano ciò che la storia racconterà. Il mondo di gioco, aggiunge Miyazaki, influenza come e cosa racconti, quindi non ha proprio senso partire da subito scrivendo una storia super dettagliata. E del resto, il bello di creare un videogioco sta anche nel modo in cui le varie componenti si influenzano a vicenda l'una con l'altra: crei un mondo, che detta una storia, che va a sua volta a influenzare la natura del mondo, eccetera.

A volte, spiega Miyazaki, ti capita che, per questioni di bilanciamento, devi magari spostare un boss dall'ottavo livello al secondo. E, beh, chiaramente, così facendo, rompi la storia, perché quel personaggio proviene da una fase più avanzata del racconto. In Shadow of the Colossus, aggiunge Ueda, ci sono ovviamente tanti boss da affrontare. L'ordine degli stessi è cambiato molto durante lo sviluppo, per farli incastrare bene fra di loro e centrare il flusso di gioco più corretto. E un discorso simile si può fare con le diverse stanze di ICO e i vari puzzle da concatenare fra di loro in maniera coerente. Chiaramente, queste modifiche influenzano la storia e lo fanno al punto – su questo concordano entrambi – che capita di vedere membri del team di sviluppo che scoprono il senso della narrazione in gioco solo a pubblicazione avvenuta. «Forse dovremmo comunicare meglio.»

Come mai Ueda punta a un design così essenziale, a mondi un po' spogli, se vogliamo, con pochi personaggi e un gameplay molto concentrato? Beh, dipende: nel caso di ICO, il team di sviluppo era composto soltanto da quindici persone, quindi dovettero limitare l'ambizione. Tuttavia, puntualizza Miyazaki, dipende dal genere. In un GdR vuoi avere tanti oggetti, tante armi, tanto materiale con cui pasticciare. Miyazaki è un fan di Runescape, ma anche del gioco di ruolo carta e penna, e impazzisce a inseguire una marea di dettagli, oggetti, armi: non a caso, adora il ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco.

Come hanno iniziato, i due? Ueda, fresco di laurea, non sapeva se dedicarsi alla grafica e temeva che lavorare nei videogiochi non avrebbe pagato abbastanza. Pensava di provarci, ma che avrebbe smesso. Soltanto cinque anni fa si è rassegnato all'idea che quella nei videogiochi è la sua carriera definitiva. Ed è una carriera che ha funzionato, dice, perché non ha voluto stare lontano dai rischi, ha scelto di provare ad andare contro le convenzioni. Il percorso di Miyazaki è stato diverso: lui per primo si definisce un super otaku, appassionato da sempre di videogiochi e di giochi in generale, e il suo desiderio era quello di potersi esprimere attraverso di essi. È entrato nel settore dieci anni fa, che era già un adulto, e ha quindi cercato di ragionare in maniera pratica, non necessariamente inseguendo i sogni ma cercando la concretezza che ci si aspetta da una persona della sua età.

A rassicurarlo in questa scelta ci ha pensato la convinzione che i videogiochi abbiano una caratteristica che non si trova in nessun altro medium: richiedono dedizione. Ci vogliono concentrazione, energia e tempo, per poter padroneggiare un gioco. E il modo in cui spendiamo il nostro tempo ha un valore significativo. Trascorrere trenta ore dedicandosi al loop di un gioco è un qualcosa che non si trova in altre forme d'intrattenimento ed è per questo che i videogiochi hanno un grande futuro davanti. Il tipo di interazione e di dedizione è unico, i videogiocatori amano i loro giochi. Inoltre, si tratta di un settore molto influenzato dalla tecnologia e questo lo rende unico, per la maniera in cui la tecnologia si evolve e influenza ciò che fai.

In tutto questo, la scena indie affascina i due, anche se la osservano da lontano. Ueda gioca a tanti titoli indie ed è intrigato dalla creatività degli sviluppatori indipendenti, ma ci tiene a sottolineare quanto sia importante trattare l'aspetto più "lavorativo" con grande serietà. Serve una strategia, serve la capacità di farsi notare e di vendersi, altrimenti puoi anche creare un capolavoro, ma a che ti serve, se non ci gioca nessuno? Miyazaki è più restio a commentare, perché non ha mai lavorato in ambito indie e non vuole quindi mettere becco in ambiti che non conosce. Anche lui, però, si preoccupa per le problematiche legate alla gestione dei budget, all'organizzazione, a tutto ciò che, magari, un contesto da publisher tripla A ti garantisce. Ma dalla scena indie, dice, arrivano tantissime idee clamorose, giochi splendidi e trovate che vanno poi ad influenzare il settore nel complesso. Ed è meraviglioso.

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