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Una storia di clandestinità, provincia e Pokémon Rosso

Una storia di clandestinità, provincia e Pokémon Rosso

In provincia le cose arrivano spesso più tardi.

Pokémon Rosso, per esempio, è arrivato nel 2000, non nel 1999. E sì, ovviamente l’ho comprato spinto dall’enorme popolarità del cartoon e dalla voglia di giocare qualcosa sul mio Game Boy. Quello che di “color” aveva solo la scocca, di un bel blu scuro che gli donava carattere ma certamente non uno schermo retroilluminato.

C’è una storia legata a quello schermo e anche a Pokémon Rosso. Fermo restando che io volevo Pokémon Blu, ma nel negozio di paese era rimasta solo la versione con Charizard sulla confezione. Lo schermo, dicevo, non era retroilluminato. E i miei genitori all’epoca erano invece piuttosto severi. Dopo avermi visto frignare fortissimo per avere quel Game Boy con Wario Land, insomma, i miei genitori decidono di limitare tantissimo l’uso di quella console. “Ti rovinerà la vista”, dicevano. Avevano ragione, a dirla tutta, ma anche questa consapevolezza arriva tardi come Pokémon Rosso in provincia.

A bilanciare la scarsa indulgenza dei miei genitori c’era invece mia nonna, persona di una generosità disarmante. Ogni volta che andavo a visitarla – ed era piuttosto spesso, visto che viveva nei pressi del posto di lavoro di mio padre – mi donava banconote da decine di euro. A proposito di consapevolezza, solo dopo ho capito che quelli che sembrano pochi spiccioli non erano poi così tanto pochi, se messi in proporzione alla misera pensione che prendeva. Ma mia nonna non mi ha mai fatto mancare un pensiero, un regalino, una banconota anche quando arrivavo a casa sua con zero preavviso. Ancora oggi, mi sembra di essermi approfittato di quella generosità, pur non avendo mai davvero preteso di avere quei doni.

Bacoli, comunque, sarebbe una regione Pokémon perfetta: mare e lago per i Pokémon d’acqua, un po’ di verde per Erba e Coleottero, appartenenza ai Campi Flegrei per i Pokémon Fuoco e quella dose di terremoti di questi mesi per i Pokémon Terra.

Con numerose banconote nel marsupio, insomma, prendo coraggio ed entro nel negozio per comprare quel Pokémon Rosso visto tante, troppe volte nelle vetrine. Ma soprattutto tante, troppe volte in possesso di miei compagni di scuola. Un po’ peer pressure, un po’ voglia di giocare su Game Boy qualcosa di diverso da Wario Land, insomma acquisto con questo mazzetto di banconote Pokémon Rosso e una confezione di pile stilo perché non volevo nulla a fermarmi. Soprattutto, i miei genitori.

Le mie prime decine di ore su Pokémon Rosso sono state ammantate dalla clandestinità. Casa dei miei è abbastanza grande da poter sfuggire dal loro sguardo per un po’ ma non così tanto da rimanere nascosto per sempre: tra sedute sul cesso, uscite in giardino e visite al piano interrato a cercare chissà cosa, insomma, continuavo a giocare col Game Boy molto più al lungo del consentito. Che erano, secondo loro, quindici minuti al giorno. Avevo scoperto il cassetto dove riponevano la console dopo quegli scarsi minuti, aspettavo che uscissero per qualche commissione e subito mi ci fiondavo. Anche di nascosto da mia sorella, per evitare spifferate inopportune.

E soprattutto rimuovendo, ogni volta, la cartuccia iper riconoscibile di Pokémon Rosso per sostituirla con quella di Wario Land 3. Perché i miei genitori, tra le altre cose, non avrebbero condonato tutti quei soldi spesi senza consenso da un bambino delle medie, nonostante fossero banconote “mie” messe da parte per mesi e mesi. Dovevo imparare il valore del risparmio per i momenti che contano. Ripensandomi oggi, a quasi quarant’anni, ancora a dilettarmi con rom-hack dei Pokémon bidimensionali, mi sento di dire che l’uscita di Pokémon Rosso sia stata proprio uno di quei momenti.

Quel senso di scoperta incredibile, il fascino di un’avventura che sembrava sconfinata, i misteri da scoprire, segreti da rivelare, leggende metropolitane da confermare o sfatare: poche cose forse hanno rappresentato per un bambino in età scolare di quegli anni quanto Pokémon Rosso prima e Pokémon Oro poi. Giochi che, prima ancora degli scambi e delle lotte in multiplayer, erano vissuti in maniera davvero collettiva, condividendo pareri, sfide (“Ti faccio vedere che catturo Mewtwo solo con una Pokéball”), consigli e, perché no, piccole rivalità. Ricordo ancora quell’infame che prese il mio Gengar “per completare il Pokédex” e poi provò a scappare senza ridarmelo, con i compagni di classe più fidati che lo hanno placcato poco dopo per costringerlo a rimediare al torto. Forse un po’ esagerato, con gli occhi di oggi. Ma anche il perdono arriva più tardi in provincia.

Il negozio di giocattoli esiste ancora oggi, ed è su questa strada.

Ci pensò mia nonna a convincere poi mia madre e mio padre a mollare un po’ il colpo su certe restrizioni, e farmi giocare a Pokémon molto più “alla luce del sole”. Certo, sempre in sessioni molto limitate rispetto ad alcune che ho fatto poi successivamente – e che ancora talvolta mi concedo – ma per lo meno rimuovendo quell’elemento di clandestinità tanto affascinante quanto scomodo. Penso abbia aiutato anche il fatto che, grazie a Pokémon Rosso stesso, il gioco diventava anche un appuntamento comunitario con amici di classe che venivano a casa mia, rimuovendo l’impressione che l’immergermi così tanto in quello schermo scarsamente illuminato, oltre che la vista, mi facesse perdere anche capacità di socializzazione.

Ci sono stati altri Pokémon più importanti per il mio rapporto con la serie (Pokémon Oro) e per la serie Pokémon stessa (Smeraldo), ma nulla di tutto questo sarebbe esistito senza Pokémon Rosso.

Un gioco arrivato forse un po’ tardi nella provincia di Napoli – quella sul mare, ci terrò sempre a precisarlo. Ma probabilmente arrivato al momento giusto nella mia vita.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al colore rosso, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

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