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Racconti dall'ospizio #186: la matura infanzia di Pokémon Oro

Racconti dall'ospizio #186: la matura infanzia di Pokémon Oro

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Non voglio fare torti a Pokémon Giallo. È stato il mio primo gioco Pokémon, regalatomi a Natale dopo una storia abbastanza travagliata. Ci sono affezionato, ecco; senza contare, poi, la sua specificità, cioè lo strizzare platealmente l’occhio alla serie animata, garantendo ai suoi piccoli giocatori una serie di chicche che Rosso e Blu non avevano: la presenza di Jessie e James, ad esempio, ma soprattutto la scelta obbligata dello starter, con Pikachu come unica opzione – che da lì in avanti ti avrebbe seguito per tutto il gioco, sulla falsariga di quanto avviene con il Pokémon Let’s Go appena uscito, ma con circa vent’anni d’anticipo. Niente scelta fra i tre starter quindi, come invece avveniva in Rosso e Blu, dove il prendere uno fra Bulbasaur, Charmender e Squirtle precludeva inevitabilmente l’ottenimento dei due Pokémon rimanenti, se non tramite degli scambi che spesso si rivelavano a dir poco sanguinosi; questo perché Pokémon Giallo te li dava tutti e tre, gli starter, durante il prosieguo del gioco, consegnandoteli anzi su un piatto d’argento, semplicemente parlando con alcuni personaggi non giocanti sparsi per le prime città esplorate, quando cioè avevi più bisogno di nuovi Pokémon con cui rimpolpare la tua squadra, garantendoti poi la possibilità di arrivare ai Superquattro con in squadra Venosaur, Charizard e Blastoise. Fidatevi che non è poco.

Eppure, non è Pokémon Giallo il titolo della serie che porto più vicino al cuore; quello è un posto riservato, ora e per sempre, a Pokémon Oro, per tutta una serie di motivi, affettivi ma anche di esperienza di gioco. Innanzitutto, è stato il mio primo gioco acquistato al day one, o quasi; ripensandoci, seppur siano passati tanti anni, non mi pare di aver particolarmente forzato i miei genitori all’acquisto, essendo abituato a ricevere un videogioco ogni sei mesi, cioè per il compleanno e a Natale. Poi stavo ancora sotto con Pokémon Giallo e, insomma, non avevo mica chissà quale fretta. Però ricordo in maniera limpida come, durante un pomeriggio d’aprile, mia madre mi accucciò in macchina, al riparo da una pioggia quel giorno torrenziale, facendomi uscire dalla periferia dove abitavamo per andare in centro a sbrigare le sue commissioni; nulla di particolarmente insolito, per me, con la differenza che, prima di rintanare a casa, passammo da Bruzzese, il giocattolaio della città, fra i cui corridoi camminavo sognante di tanto in tanto, programmando e valutando possibili doni per la ricorrenza più vicina. Sulle prime non capii, e alla scontata domanda mia madre mi liquidò con un netto “torno subito”, lasciandomi in auto e schizzando fuori per non prendere troppa pioggia. Dopo una manciata di minuti, si ripresentò in macchina, appallottolata dentro il suo impermeabile, dal quale sfilò una copia di Pokémon Oro.

Oro/Argento segnò il debutto dei Pokémon cromatici, di cui Gyaridos Rosso è forse il più iconico. Cioè, chi è arrivato ai Superquattro senza portarselo in squadra almeno una volta?

Ci giocai due giorni dopo, più o meno. Non perché non avessi apprezzato, anzi; è ché le batterie del Game Boy erano scariche, quelle di riserva pure e anche la durata di quelle dei telecomandi era già stata compromessa dalla mia voglia di Pokémon nelle settimane precedenti. Dovevo comprarne di nuove ma, dopo una sorpresa grossa come Pokémon Oro, proprio non mi andava di chiedere ancora, qualsiasi altra cosa, ai miei. Fatto sta che, una volta inserita la cartuccia dentro la console, ne fui immediatamente rapito, seppur in maniera diversa rispetto a quanto mi era capitato con Pokémon Giallo. Dopo tre mesi di sbagli e batoste prese con la prima generazione, ormai, mi consideravo già un esperto della saga, quindi il nuovo mondo, la regione di Johto, che mi si presentava di fronte era sì inedito ai miei occhi, ma avevo una sensazione di consapevolezza mai provata prima durante l’esplorazione di un videogioco. Sapevo che avrei dovuto scegliere uno fra tre starter (Chikorita, sempre e comunque), sapevo che avrei dovuto conquistare una medaglia in ciascuna delle otto palestre, sapevo che avrei dovuto battagliare con un rivale presumibilmente parecchio antipatico. Ma non sapevo che sarebbe avvenuto in quel modo, finendo per rimanere sorpreso a più riprese. 

Pokémon Oro/Argento segnò l’inizio di un certo tipo di sensibilizzazione per la cura e il rispetto dell’ambiente, e degli animali che lo abitano, da parte di Game Freak nei confronti dei propri piccoli giocatori. E quello che il Team Rocket combina al Pozzo Slowpoke, fidatevi, può avere un certo effetto in un ragazzino di otto anni. Maledetto Team Rocket.

Come quando Lance, l’ultimo dei Superquattro, si è tolto i panni di Campione della Lega Pokémon per darci una mano a sgominare il Team Rocket. O come quando il professor Elm ci consegnava questo strano oggetto, un uovo Pokémon, dal quale sarebbe spuntato fuori uno splendido Togepi. O ancora, quando abbiamo dovuto affrontare l’ultimo capopalestra, Sandra, la maestra dei Pokémon di tipo drago, una tipologia di Pokémon resistente praticamente a tutto, almeno all’epoca, con un’aura di epicità che restituiva al giocatore un reale senso di maturazione e di padronanza delle proprie capacità e dei propri compagni di viaggio. In Pokémon Oro/Argento c’era, insomma, un universo coinvolgente in maniera incredibile, ancora nuovo agli occhi dei più e che dopo poco più di un anno veniva ulteriormente espanso, aggiungendoci poi, come ha ben descritto Mario Marino, un’altra regione, la vecchia Kanto di Rosso/Blu/Giallo, che nel mentre era cambiata in diversi suoi dettagli, elevando così all’ennesima potenza quel senso di progressione che, nella sua prima parte ambientata a Johto, il gioco era riuscito comunque già ad esprimere. 

Con questo carico di ricordi, non potevo esimermi dall’acquisto di HeartGold, quasi dieci anni più tardi. Come sottolineato sempre da Mario, la differenza più marcata, questa volta, consisteva nel contesto e in chi ci attorniava. Non più tantissimi altri coetanei-allenatori, ma solo quei nostalgici che si trovavano improvvisamente a metà fra la scuola elementare e il liceo con un Nintendo DS fra le mani. Nonostante ciò, Pokémon Oro HeartGold me lo godetti fino all’ultimo, grindando durante le spiegazioni di Kant del professor Meduri (di cui ricordo solo i dettagli più scabrosi, come il fatto che gli piacessero le tette grosse oppure che la carne la masticasse solo per assorbirne le proteine, per poi sputarla in un piatto – un fatto, col senno di poi, per me abbastanza ironico, considerando che, durante i miei studi universitari, mi sono più volte imbattuto fra i postulati sul cognitivo di Kant e le peculiari caratteristiche di un testo sincretico qual è il videogioco) e battendo i Superquattro a casa, invece che preparare i classici greci, stupendomi per ogni dettaglio aggiunto rispetto alla versione originale; ma mai, purtroppo, come quando avevo otto anni. 

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai Pokémon, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

This War of Mine: The Last Broadcast e il prezzo della verità

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Old! #281 – Novembre 1998

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