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A me questa prima persona qui non mi convince

A me questa prima persona qui non mi convince

Gli facciamo la prova della cadrega?

Da destra: io, la prima persona, la mia capacità di immedesimazione.

Quando ancora ero una matricola di Scienze della Comunicazione carica di belle speranze (tra cui quella di guadagnare scrivendo… ahahahahah! Che tenero!), il professore di Comunicazione Visiva tenne una lezione proprio sui giochi e sulla distinzione tra visione soggettiva, o prima persona, e oggettiva, ovvero la terza persona. La teoria che ci proponeva è che la visione soggettiva fosse più coinvolgente in quanto favorevole ad una maggiore immedesimazione.

Ecco, quella teoria lì, a me non mi ha mai convinto.

Chiaramente si tratta di una visione soggettiva (ah ah ah… er…) che sicuramente innumerevoli altre persone non condivideranno minimamente e che potrebbe originare o in una autocoscienza che non mi vede molto a mio agio nello schivare atleticamente grandinate di piombo mentre rispondo maneggiando un fucile d’assalto, oppure in una predilezione per un ruolo più da osservatore che da attore. Uno psicologo potrebbe probabilmente trovarci utili indizi per decifrare la mia psiche, a quello psicologo una sola immagine vorrei ricordare:

Da sinistra: io e le verità scomode sulla mia psiche.

Tutto chiaro, bene, proseguiamo.

La prima persona no, la terza persona sì. Chiaramente ho passato le doverose centinaia di ore sui classici che aprirono la strada del Treddì: i primi due Doom, Quake, Unreal li godetti come poche cose al mondo, come anche un Outlaws per la mia passione western, ma man mano che la sete di sangue tridimensionale si saziava, cominciai a non trovarmi più “coinvolto” e così lasciai a metà capolavori immortali come Half Life, System Shock e Deus Ex.

I ricordi.

Tornai rapidamente a prediligere una narrazione che mi dava il ruolo di spettatore/manovratore: adorai ad esempio Tenchu ma non riuscii manco a finire il primo ambiente di Thief e infine, come ho già raccontato più di una volta, quando Max Payne mi permise di shootdodgiare al ralenty i proiettili di orde di mafiosi da operetta, capii di essere arrivato nella mia personale Shangri-la dello sparaspara.

Era inevitabile: per sentirmi coinvolto non dovevo essere io ad evitare i proiettili, doveva essere l’eroe a cui, eventualmente, urlavo “ma ca$$° schiva!” esattamente come il pubblico dei western urlava “Attento!!” o il pubblico degli horror “Scappa!!”.

Il mio genere di personaggio.

Come nei film, inoltre, pretendevo e pretendo dal personaggio principale carisma e doti interpretative: a sparare sono bravi tutti, ma riesci a sparare E convincermi con uno one-liner? Non bastava il gameplay, a seconda del genere ci voleva il carattere da furbetta prima della classe di Ayame o la maschia inespressività di Rikimaru a farmi gustare l’affettatura di nemici in salsa chambara, Shinobido e Red Ninja entrarono ed uscirono rapidamente dai miei radar; i Redfield furono il mio passaporto per l’horror videoludico ma poi Resident Evil me li perse un po’ per strada; in un podcast recente, penso di aver reso chiaro che difficilmente avrei gradito Parasite Eve quanto l’ho gradito se non fosse stato per Aya Brea; infine, il fatto che io abbia avuto difficoltà a finire Control, la summa videoludica della mia amata Remedy, e che questa difficoltà abbia un nome, Jessie Faden, la dice lunga.

Tranquilli, alla fine ci ho fatto pace.

Negli sparaspara puri, questo carisma ho fatto fatica a trovarlo al di là del benemerito Max Payne; sono sempre stato tentato dai giochi Rockstar che, tra GTA e Red Dead Redemption, promettono carisma a pacchi, come anche i Saints Row, ma lì è un pochettino il free roaming a spaventarmi con quella narrazione lasca che viene lasciata al tuo sentimento.

Come ho detto: spettatore fino in fondo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Doom, agli sparatutto e alle sparatorie, che potete trovare riassunta qua.

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