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I Jefferson non davano spazio al pregiudizio

I Jefferson non davano spazio al pregiudizio

A me I Robinson sono sempre stati un po’ sulle balle.

Ecco, ora qualcuno starà ricontrollando il titolo chiedendosi se non sia un refuso, ma, no: è la solita Premessa Verbosa(tm).

Dicevo: i Robinson (The Cosby Show, mi dice wikipedia, facendomi subito salire quel leggero fastidio) mi stavano sulle balle non solo a causa della mia insofferenza nei confronti di Bill Cosby che, abbia o non abbia commesso quello che è accusato di aver commesso, mi ha sempre dato l’impressione di quello che fa l’amicone aspettando solo che ti giri per… sì, insomma, farti quello. Mi stavano sulle balle perché la totale mancanza di sincerità mi sembrava li permeasse completamente: tutte le volte che la famiglia Robinson mi appariva a schermo, io sentivo puzza di bruciato.

E non era certo l’arrosto di tacchino preparato dal perfetto, integerrimo ed equilibrato padre di famiglia interpretato da Cosby.

Il motivo di ciò mi è diventato chiaro nel momento in cui, pensando a come potevo rovinare contribuire a questa Cover Story, ho ricordato I Jefferson: i Robinson (anzi, gli Huxtable) erano gli “anti-Jefferson” e non era quindi possibile che mi piacessero i primi, tanto avevo adorato i secondi.

Finita la Premessa Verbosa(tm) vediamo di elaborare, che non siamo qui a disegnare le bande bianche sulle zebre.

In onda dal 1975 al 1985, The Jeffersons raccontava della coppia di successo “self-made” composta da George e Louise “Wheezy” Jefferson che, scavalcata da tempo la mezza età, si godono i frutti di una ascesa iniziata come semplici lavandai, intrattenendosi con gli altrettanto benestanti vicini, tollerando il sarcasmo benevolo della servitrice di colore ed osservando - compiaciuta lei e recalcitrante lui - l’unico figlio avviare una relazione con la figlia dei summenzionati vicini.

George e Louise Jefferson erano due persone di colore.

Due persone di colore di mezza età posate e non necessariamente dotate di senso del ritmo o indole artistoide. Due persone di colore ricche, con come vicini una coppia mista ricca. Due persone di colore ricche con un UNICO figlio invaghito della UNICA figlia meticcia dei vicini.

E con la servitrice di colore.

Vogliamo fare il confronto con i CINQUE figli della illuminata e niente affatto stereotipata famiglia Huxtable/Robinson?

Ovviamente, al tempo della visione, non mi interrogavo su queste cose: ci arrivai anni dopo e solo di recente ho scoperto che questa visione critica e sovversiva era il marchio di fabbrica di Norman Lear, il quale aveva introdotto la famiglia Jefferson come “supporting cast” nella sit-com Arcibaldo (All in the family), dalla analoga visione “verista”.

Bisognava sopravvivere al doppiaggio italiano, comunque.

Ma anche non avessi saputo della visione di Norman Lear, già solo il personaggio di George Jefferson era prova sufficiente di una voglia di tenersi alla larga dalle macchiette.

Interpretato dal veterano di Broadway Sherman Hemsley, George Jefferson avrebbe potuto essere interpretato da un bravo commediante di qualsiasi provenienza: ebreo, irlandese, italiano, messicano, portoricano.

Non stereotipo ma archetipo del self-made man tiratosi fuori dalla povertà a botte di duro lavoro, intuito commerciale e arrogante sicurezza di sé: in una sit-com dell’Italia degli anni Ottanta, George Jefferson sarebbe quasi sicuramente stato un veneto o un bergamasco attestatosi nella Milano bene ma poco propenso a farsi tirare dentro dal “Dudi” o dal “Gianfri” e dai loro costosi “ape”.

Archetipo e pieno di difetti.

Innanzitutto non era simpatico: ti diventava simpatico, ma come prima impressione, quello che vedevi era un tappetto bruttino e avido che ingombrava il riquadro televisivo con il suo sorriso da imbonitore. Mutuato dallo Scrooge dickensiano (e, infatti, la serie avrà l’inevitabile episodio Canto di Natale), era avaro e di indole truffaldina e se manteneva una bussola morale era solo grazie allo sguardo amorevole ma severo della imponente coniuge.

Conciso ed efficace

Ed era razzista e politicamente scorretto.

Non solo per lui “nigger” poteva essere alternativamente medaglia o insulto da rivolgere a parvenù e parassiti, ma l’abuso verbale nei confronti della coppia di “zebre” della porta accanto era qualcosa che (purtroppo) si poteva solo vedere nella televisione degli anni Settanta. Per George Jefferson (come per una consistente quota di appartenenti a ogni minoranza etnica), una coppia mista era inspiegabile e, pur non azzardandosi a far valere la sua patria potestà (sia per amore paterno, sia per il rischio di essere scaraventato fuori di casa dalla decisa Wheezy), certamente avrebbe accolto con gioia un dirottamento dell’interesse romantico del figlio verso una “purosangue”.

Sicuramente era paternalista e padronale. Se non avesse trovato pane per i suoi denti nell’acida cameriera di colore Florence, assunta chiaramente perché costava meno di una governante WASP, sarebbe stato un padrone esigente, scostante e tirchio.

Insomma, contrariamente alla perfezione proposta da Bill Cosby nel decennio successivo, nel padre di famiglia di colore interpretato da Hemsley i pregi vincevano sui difetti per una pagliuzza. Come in quasi ogni persona “vera”.

Proprio per questo, George non sarà mai un magical negro: non spiegherà mai a chicchessia il valore della tolleranza e del confronto, né accompagnerà mai nessuno a scoprire la meraviglia insita nella diversità. Quasi sempre sarà lui a trovarsi gli occhi aperti a forza e ad essere lasciato a trarre la morale della puntata, un po’ come si lascia l’allievo discolo di fronte alla lavagna a ripetere la lezione imparata a forza.

Un allievo discolo e bassino, bruttino e dal sorriso storto, che per dieci anni, circondato da un cast non sempre all’altezza, recitando storie che in qualche occasione nello stereotipo sono scivolate, ha agito per noi i frammenti di una vita imperfetta e divertente.

Quasi vera.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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