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Wing Commander e la promessa di poter toccare lo spazio infinito | Racconti dall’ospizio

Wing Commander e la promessa di poter toccare lo spazio infinito | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

In principio era Star Trek. Nella sfigatissima configurazione televisiva della mia infanzia (entroterra ligure, pochi canali ricevibili dal 14 pollici in bianco e nero), fu quello il mio primo approccio con lo spazio, l’ignoto, l’avventura fantascientifica. Una puntata ogni tanto, quando il baffo-antenna lo consentiva, senza alcuna pretesa di continuità. Poi venne Star Wars o, meglio Guerre Stellari, e da lì la mia immaginazione si proiettò potentissima verso galassie lontane lontane, che avrei voluto esplorare, vivere, conoscere, con una spada laser al mio fianco e una canaglia a coprirmi le spalle.

Una canaglia come lui, Maverick (wink-wink). - Foto: Let’s Play Archive https://lparchive.org/

Lo spazio profondo era lo sfondo anche di tanti videogiochi. Il primo contatto con Asteroids (in un luogo di villeggiatura diverso - seppur anch’esso circondato da neve - rispetto a quello del buon Babich) quand’ero ancora bambino suggeriva, con quel suo nero di sfondo, chissà quali strade spaziali da percorrere, quali nemici da conquistare, quali civiltà da scoprire. Peccato che queste civiltà, al contrario di quello che accadeva di solito al Capitano Kirk, fossero tutte maledettamente colleriche. Sempre nemici, gli alieni, da quelli di Space Invaders, colorati a strisce in alcuni coin-op grazie a lucidi colorati appiccicati agli schermi, a quelli di Scrambler, Phoenix, Galaxian, Galaga, Zaxxon, R-Type, Gyruss (ci faccio una partita sul MAME ogni tanto ancora adesso) e chi più ne ha più ne metta.

Altro che ponte ologrammi: le battaglie di Wing Commander erano pazzesche, per l’epoca! - Foto: Giant Bomb https://www.giantbomb.com

Quando, nel 1990, Origin lanciò Wing Commander, il cerchio sembrò chiudersi. C’era una storia che vedeva gli umani in conflitto contro una razza di felini antropomorfi, i Kilrathi, c’era una nave madre fantastica, la Tiger’s Claw, a fare da casa per personaggi che in breve tempo diventavano compagni, amici. Paladin, Maniac, Bossman, Angel, Spirit, ci voleva pochissimo perché diventassero ben più che dei callsign e dei pixel che si muovevano sullo schermo. C’era il briefing pre-missione, un motore di gioco che ti metteva nel cockpit di astronavi bellissime. C’erano missioni lunghe e articolate, la mappa da consultare, laser e missili, scudi deflettori e il mirino predittivo, che ti indicava dove sparare per cercare di intercettare quel dannato, velocissimo Dralthi nemico.

Mi piaceva così tanto, stare nel cockpit del mio caccia, che talvolta non attivavo nemmeno l’autopilota per raggiungere più velocemente i navpoint in cui sapevo sarebbe “successo qualcosa”, in una sorta di crescendo emozionale autoindotto. I dogfight al di fuori della Tiger’s Claw, poi, erano fantastici. E lo erano anche per me, nonostante pure con Wing Commander la mia esperienza fosse disagiata. Perché lo giocavo su Amiga.

La versione Amiga (a sinistra) contro la versione PC (a destra). Purtroppo le differenze non si limitavano alla palette di colori disponibile.

E gente, su Amiga ci voleva proprio pazienza, per giocare a Wing Commander. Pazienza, perché intanto ci vollero due anni per poterci giocare, tanto richiese a Origin lo sviluppo della versione specifica. Poi perché, nel corso delle battaglie, il frame rate crollava letteralmente: quando si doveva combattere contro una nave madre Kilrathi le prestazioni erano talmente scarse da dover anticipare tantissimo i colpi, i movimenti dell’astronave si tramutavano in un goffo tentativo di nuotare in una piscina di melassa e, in generale, si andava avanti con una buona dose di botte di culo.

Eppure ci tornavo sempre, perché era bello trovarsi nella “Danger Zone” (del resto, con Maverick e Iceman… ), ma soprattutto prendersi un drink al bar di Shotglass, facendo quattro chiacchiere, immaginando l’accento francese di Angel e accogliendo i consigli paterni di Paladin.

Quello che Chris Roberts riuscì a creare, insomma, era un piccolo mondo credibile, come quello di Star Trek e di Guerre Stellari. Un mondo in cui c’erano storie e personaggi da raccontare, non solo colpi da sparare per arrivare all’ultimo boss. E dopo aver giocato anche agli altri capitoli della saga, con l’impatto devastante (in positivo) di Wing Commander III e IV e quello altrettanto devastante (in negativo) del film uscito al cinema, con il poco ispirato Wing Commander: Prophecy ho chiuso quel capitolo, che ormai sembrava aver detto tutto quello che aveva da dire.

Per me l’avventura finisce qui, alla grandissima, con Mark Hamill nei panni di Christopher ‘Maverick’ Blair e un fantastico Malcom McDowell nei panni dell’Ammiraglio Tolwyn.

Un po’ mi dispiace, perché avrei proprio voglia di tornare nel mondo di Wing Commander, ad ascoltare le spacconate di Maniac e a litigare con l’ammiraglio di turno (beh, non Tolwyn, a questo punto). Ma chissà, forse Chris Roberts riuscirà a pubblicare Star Citizen: Squadron 42, l’erede ideale di Wing Commander, nel 2020, come da ultime comunicazioni, e riuscirà a replicare la magia.

Ci crediamo?

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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