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X-Wing nella mia cameretta | Racconti dall’ospizio

X-Wing nella mia cameretta | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

I miei ricordi su come ebbe inizio la mia storia con X-Wing sono abbastanza confusi. Di sicuro, quello dei simulatori spaziali è un genere a cui ho voluto benissimo durante gli anni Novanta, fin da quando mi sono goduto quei pochi veramente belli arrivati su Amiga, tipo Epic, via via poi lungo tutta la trafila a base di Wing Commander, andando a recuperare la serie di Chris Roberts fin dal primo, all’epoca ormai arcaico, per poi procedere con Conflict: Freespace e spaceshooterume vario su PC. Giocai anche a un paio di cose sulla prima PlayStation, roba tipo Colony Wars, prima di perdere di vista il filone, per altro perso di vista da un po’ tutto il settore dei videogiochi. Ma il vero viaggio interstellare, per me, fu nella prima metà degli anni Novanta. Le emozioni provate aggrappato a quel joystick analogico molto rozzo, semplice, esile ma efficace, che mi dava la sensazione di stare stringendo nelle mani una cloche, sono legate a doppio filo all’età adolescenziale e me le tengo strette. Quando poi arrivò il Sidewinder di Microsoft, super cloche gigantesca con force feedback, fu un sogno, e me lo gustai parecchio, ma la fase più “sognante” della faccenda era finita e già guardavo ai videogiochi in maniera diversa, più analitica e cagacazzi, con gli occhi meno spalancati. Adesso ho un HOTAS, ed è fantastico, ma non è lo stesso tipo di viaggio.

Con X-Wing, poi, ho un legame particolare anche perché ci misi mano all’età giusta, sufficientemente giovane per perdermici completamente, sufficientemente cresciuto per avere la padronanza mentale e manuale necessarie a godermelo davvero. Ricordo di aver giocato per un bel po’ a una versione su dischetti passatami da qualcuno poco dopo l’arrivo del mio primo PC, ma il vero deep dive, giù giù fino all’esplosione della Morte Nera, arrivò solo in seguito, con la riedizione su CD-ROM giunta qualche tempo dopo (la combo SVGA+RAM aggiuntiva+CD-ROM giunse quando The Dig e Star Trek: The Next Generation – A Final Unity la resero necessaria). Ricordo di averci passato ore, giorni e notti, innamorato della profondità di un gioco che ti immergeva davvero in quel mondo fantastico, motivato dall’aver amato Star Wars fin da piccino, fin da quando me l’aveva fatto scoprire mia madre. E l’emozione di ritrovarmi a volare sulla superficie della Morte Nera, portando a compimento quella missione, con fra l’altro in testa il pensiero che “Sì, OK, visivamente è un po’ piatta, ma guarda che roba impressionante, c’è tutto, sei lì, si muove tutto… pazzesco!”, me la ricordo chiaramente, così come ricordo il confronto con Rebel Assault, che aveva un impatto pazzesco ma al confronto era un gioco goffo e da bambini. E più in generale, quella sensazione di essere lì, di viaggiare fra le stelle, di pattugliare il cosmo, di scortare grosse astronavi ribelli, di attaccare a testa bassa enormi Star Destroyer, di uscirne per il rotto della cuffia, magari grazie alla mossa di dirottare in extremis quel pizzico di energia in più dai cannoni agli scudi. Che bello. Che begli anni.

Ah, la nostalgia, brutta bestia.

Ci sono però tre ricordi specifici, legati a X-Wing, a cui sono per qualche motivo affezionato. Probabilmente li ho già raccontati in qualche altro articolo, di sicuro li ho menzionati in giro per podcast, ma insomma, vuoi non tirarli fuori per la Cover Story su Guerre stellari? Il primo è una minuzia, ed è proprio il fatto che ci giocavo con il joystick analogico. Era faticoso, emozionante, appagante. Imparare a dosare i movimenti, ad anticipare gli spostamenti, faticare nel prendere la mira, bilanciare al meglio l’approccio al dogfighting… era divertentissimo e il coinvolgimento era stellare. Ricordo chiaramente quando un mio amico mi disse, in maniera molto candida, una cosa tipo “Ma perché non ci giochi col mouse? Guarda, si prende la mira in maniera troppo più precisa.” e io rabbrividii. La mia sensazione era proprio quella di chi “Non puoi capire”. Certo, col mouse si mirava meglio, si giocava in maniera più efficiente, ma la poesia dove stava? Non c’era proprio paragone. Con le mani strette sul joystick mi sentivo a bordo di un X-Wing e allungarne una fino alla tastiera per cambiare l’assetto energetico dell’astronave era come allungare una mano sulla plancia, nell’abitacolo. Con le mani su mouse e tastiera, avrei semplicemente giocato a un videogioco.

La cosa buffa è che in questo momento, mentre lo scrivo, per la prima volta nella mia vita, mi rendo conto che, in fondo, quel che mi diceva lui è più o meno come quel che penso io quando mi chiedo come si possa giocare agli FPS con il pad nei casi in cui ci sono a disposizione mouse e tastiera. È meglio con mouse e tastiera, no? Magari sì, magari no, fatti i cazzi tuoi.

Il secondo ricordo si riallaccia a un’opzione forse non particolarmente pubblicizzata, ma comunque presente nel gioco, che permetteva di rinominare i vari membri dello squadrone. C’era una manciata di anonimi veneziani che, a seconda del caso, ti seguivano o meno in azione, come compagni di battaglia, e che potevi portarti dietro dall’inizio alla fine del gioco ma potevano anche lasciarci le penne. Ecco, io, ovviamente, li rinominai tutti assegnando loro i nomi (o i cognomi, non ricordo) dei miei amici. Era una cosetta, eh, ma cambiò completamente la prospettiva sulla cosa e rendeva molto più fastidioso vederne schiattare uno durante una missione. Non c’era alcun tipo di conseguenza pratica, non erano personaggi da far crescere in abilità, ma nella mia finzione mentale, nella mia lettura delle cose, lo erano. Erano i coprotagonisti del mio film di Guerre stellari, che stavo dirigendo in prima persona, ed erano pure gente che conoscevo. Non posso dirlo con certezza, ma secondo me mi immaginavo anche dialoghi e battute, fra una missione e l’altra, durante le missioni. In più di un’occasione, arrivai a smanettare fra dischetti per fare copie di riserva del salvataggio e poter così tornare indietro nell’avventura dopo la morte di qualche compagno, talvolta anche se la missione, nel complesso, era stata portata a termine in maniera vittoriosa.

E poi c’è il terzo ricordo.

Da ragazzino ero molto più appassionato di colonne sonore videoludiche rispetto a oggi, ne ho parlato giusto la scorsa settimana ricordando Loom. Questa cosa, col tempo, si è un po’ persa, e pur non essendo mai (o ancora) diventato – se non in casi molto specifici legati al grinding – uno di quelli che videogiocano ascoltando musica esterna o podcast, ho abbracciato con tutto il cuore l’opzione offerta dalla prima Xbox di caricare sul disco fisso i propri MP3 e usarli come colonna sonora nei videogiochi. Certo, lo facevo solo su titoli sportivi o di guida, roba che comunque aveva come accompagnamento musicale compilation di canzoni, ma lo feci subito, a randa, quando ancora era piuttosto scomodo e bisognava, appunto, infilare i CD nel lettore di Xbox per travasare. Probabilmente, fui così pronto a questa opzione perché lo facevo già molti anni prima. I dettagli su come la cosa abbia avuto inizio sono vaghi, ma credo di aver provato a infilare un CD musicale nel lettore di CD-ROM quando ancora giocavo alla versione di X-Wing su dischetto, quindi installata su hard disk, e aver notato che, premendo il tasto play sul lettore stesso, potevo far partire la musica. E non mi dispiaceva, anche se già all’epoca ero uno spaccamaroni e non ero soddisfatto dalla natura “extradiegetica” della cosa, tanto più che l’accompagnamento musicale del gioco, seppur timido e presente solo nei momenti chiave, pescava ovviamente a piene mani da John Williams. E che gli volevi dire, a John Williams? La svolta, paradossalmente o forse no, si verificò quando passai alla versione del gioco su CD-ROM e mi ritrovai quindi col lettore occupato. All’improvviso, trasformai una cosa totalmente, come detto, extradiegetica in un’altra del tutto diegetica, seppur solo attraverso la mia immaginazione.

Quando era ora di giocare a X-Wing, preparavo la postazione. Avevo ovviamente il mio desktoppino orizzontale fisso sulla scrivania, sol suo piccolo monitor e la tastiera, il joystick posizionato davanti a me e la tastiera nell’angolazione giusta per raggiungere comodamente i tasti necessari. La porta e la finestra erano chiuse. Sulla mia destra, uno sgabello, di legno, con la superficie nera, parte di un set con un tavolo di quelli ripiegabili e agganciati al muro che mia madre aveva regalato a mia cugina per le sue sessioni di disegno e pittura (viveva assieme a noi, studiava disegno a Milano). Sullo sgabello, il boom box. Sì, insomma, la radio/mangianastri/lettore CD, il coso grosso tramite cui ascoltavo musica. Una volta avviato il gioco, partiva la magia. La mia cameretta diventava l’abitacolo del mio X-Wing. La scrivania era il cruscotto; i tasti erano interruttori; il joystick era la cloche; non mi alzavo, non mi spostavo, ero inchiodato sulla sedia; lo sgabello era il lato destro dell’abitacolo, un piano su cui appoggiavo la mia radio portatile, come un ribelle arrabattato con mezzi di fortuna. Ma non c’era musica. Esploravo il gioco, selezionavo la missione, partivo. Viaggiavo per lo spazio, nel silenzio, con le musiche del gioco azzerate. Mi godevo il fascino della solitudine, magari qualche chiacchiera veloce con i compagni. Poi, all’improvviso, un puntino sul radar, un messaggio radio, una base a vista: era ora di combattere. E io, pilota ribelle, per combattere, volevo della musica. Premevo play sulla radio, la musica partiva e mi gettavo nel macello, fra rumori di spari, missili, esplosioni, accompagnato da musica sparata a palla che rimbombava nel mio abitacolo. Ed era quasi sempre la stessa canzone, perché era quella che mi dava la carica giusta, o magari perché era l’unica che il mio alter ego era riuscito a portarsi in guerra in fondo alla galassia, chissà. Era Failed Territory dei Biohazard.

Era bellissimo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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