Outcazzari

Warren Spector è ancora in missione

Warren Spector è ancora in missione

Quando qualcuno mi chiede quali siano i miei videogiochi preferiti di sempre, ci sbatto sempre dentro Deus Ex, anche se ovviamente, oggi come oggi, è invecchiatissimo e ci saranno chissà quante altre cose a cui preferirei rigiocare. Il suo creatore, Warren Spector, ha una carriera pluridecennale alle spalle eppure, nonostante un periodo di “assenza” nel quale si è dedicato all’insegnamento, continua ancora oggi a lavorare per spingere le sue idee di game design e i suoi principi legati allo sviluppo di videogiochi. Nello specifico, lo sta facendo con System Shock 3, ritorno (si spera) in grande stile di una serie storica, seminale, cui lui contribuì già agli esordi. Al Reboot Develop Blue 2019 l’ho incontrato e abbiamo chiacchierato per mezz’ora, parlando della sua carriera, delle sue idee, dello stato del settore e di molto altro ancora. In questo articolo su IGN Italia, ho unito le risposte che mi ha dato a un racconto del suo intervento sul palco della fiera croata, nell’Outcast Reportage dedicato alle interviste del Reboot Develop Blue 2019 potete ascoltare la conversazione in inglese e di seguito potete leggerne la trascrizione integrale in italiano.

Buona lettura!

Tu "nasci" come appassionato di cinema...

Sì!

... hai iniziato come critico cinematografico, poi hai lavorato su boardgame... e in effetti, nei tuoi interventi per esempio alla GDC, fai sempre riferimenti cinematografici piuttosto sofisticati...

Ci provo! Adoro il cinema, ancora oggi, e in realtà, in origine, avrei voluto lavorare nel cinema, volevo fare il regista... come tutti. Ma negli anni delle superiori e del college ho girato dei film e mi sono reso conto abbastanza in fretta che c'era gente dal talento molto superiore al mio, in quell'ambito. A quel punto, siccome avevo grandi conoscenze di storia del cinema, ho deciso di focalizzarmi su quello, di fare il professore di storia del cinema e di scrivere su quell'argomento. In quello stesso periodo, però, mentre frequentavo la scuola di specializzazione, giocavo un sacco a boardgame e giochi di ruolo e mi innamorai dei giochi. Poco tempo dopo ebbi una chance di andare a lavorare in Steve Jackson Games, una piccola azienda specializzata in boardgame e GdR, e la colsi al volo.

Possiamo dire che nei giochi a cui hai lavorato si vedono quelle influenze? C'è un aspetto da gioco di ruolo in praticamente tutti i tuoi giochi e c'è anche il gusto per la narrazione, elementi cinematografici...

In realtà io cerco di evitare gli elementi cinematografici. A un livello proprio superficiale, una delle mie regole è "Niente cutscene".

No, certo, però diciamo che tipicamente inserisci un elemento narrativo molto forte, anche se attraverso il gameplay.

Sì, credo molto nell'utilizzo di una narrazione forte. La cosa interessante è che la gente, quando pensa ai miei giochi, tipicamente, pensa solo all'idea di dare potere al giocatore, offrirgli scelte e conseguenze. Quelle cose ci sono e sono l'aspetto più importante, ma tutti i miei giochi raccontano una storia completa e lineare. Questo perché i miei giochi sono strutturati così: c'è una storia lineare, di cui controllo l'arco narrativo, controllo quello che fai e perché lo fai in ogni istante, ma come lo fai, il gameplay "minuto per minuto", appartiene completamente al giocatore. E quello è il dialogo, se vogliamo, fra me e il giocatore: giocano alla mia storia, esattamente come i giocatori di un gioco di ruolo carta e penna giocherebbero alla storia del dungeon master, ma siccome hanno il controllo "minuto per minuto", non succede mai che due giocatori vivano la stessa esperienza. Ed è molto potente! Se ci fosse solo la parte di scelte e conseguenze, si avrebbe un sandbox, e sarebbe magari anche divertente, ma penso che avere quell'esperienza narrativa che racchiude il tutto e che controllo io renda l'esperienza più ricca e più profonda.

Si può magari dire che i tuoi giochi sono composti da tanti sandbox separati che si connettono fra loro attraverso la narrazione?

È un'ottima definizione. E in effetti mi è capitato di parlarne: ci sono giochi sandbox, senza alcuna forma di narrazione, e ci sono giochi stile montagne russe, completamente lineari, in cui il designer sa esattamente cosa farai ad ogni passo. E i miei giochi sono delle piccole serie di sandbox. È esattamente così.

E devo dire, ho rigiocato al primo Deus Ex un po' di anni fa e se c'è un aspetto in cui non è invecchiato per nulla è quello, il modo in cui puoi fare più o meno quello che vuoi, chiaramente all'interno di alcune regole... anche più che nei Deus Ex recenti!

[Spector fa spallucce]

Mi affascina, però, il fatto che di recente, per tre o quattro anni, ci sono stati due Deus Ex, due Dishonored, Prey... quel tipo di gioco era tornato di moda, ma ora la moda sembra stare un po' passando... perlomeno in ambito tripla A. Chiaramente ci sono Underworld Ascendant e System Shock 3, ma forse è meno sulla bocca di tutti... ?

Non so se sono d'accordo, sai? Ho rilasciato tante interviste e la resurrezione dei giochi di "immersive simulation" mi sembra invece stare proseguendo, a partire da quelli che hai citato. La cosa interessante è che ho sempre pensato che quell'idea di giocare al gioco nel modo che preferisci fosse molto potente e mainstream. E in effetti cominciamo a vederla in giochi come The Legend of Zelda: Breath of the Wild... non sto dicendo di averli influenzati! Sono dei geni e sono sviluppatori di gran lunga migliori di me! Ma in quel gioco si vede quella libertà di approccio, di stile, lasciata al giocatore. Anche i giochi di Zenimax, di Bethesda, hanno un po’ di quello spirito. Insomma, secondo me, quello che stiamo vedendo è che forse ci sono giochi meno “dedicati” in tutto e per tutto a quell’approccio, ma più giochi che subiscono l’influenza di quel genere. Si sta infilando un po’ di nascosto. Ed è buffo, perché è un po’ l’obiettivo che avevo con Epic Mickey, prendere l’idea delle immersive simulation e farla arrivare a un pubblico più ampio. Perché sapevo che il solo fatto di avere Topolino come protagonista avrebbe spinto la gente a provare il gioco. E ha funzionato! Epic Mickey è di gran lunga il mio gioco più venduto. E le idee alla base erano le stesse: scegli il tuo stile di gioco, il modo in cui giochi fa la differenza nello sviluppo della storia e via dicendo. Insomma, credo che il ritorno di quel genere stia proseguendo, solo che lo sta facendo più “di nascosto”.

E su questo tema, mi viene in mente il fatto che qualche anno fa, ai GDC Awards, Shadow of Mordor vinse il premio per la miglior narrazione e molti si stupirono perché la storia non era un gran che. Ma il punto era il modo in cui creavi narrazione attraverso il gameplay, attraverso il sistema Nemesi. E forse anche lì si vede l’influenza del genere… ?

Sì… oh, poi, di nuovo, non voglio dire che hanno giocato a Deus Ex o Epic Mickey e per questo hanno sviluppato Shadow of Mordor in quella maniera! Però, in tutta onestà, quando uscì Deus Ex, parecchi sviluppatori vennero a dirmi che, dopo averci giocato, avevano cambiato completamente il loro approccio al design. Fu molto lusinghiero. Il successo si misura anche così, su quanto influenzi altri sviluppatori. Comunque, per quanto mi dia fastidio dirlo, quasi non importa che la narrazione sia eccellente. La narrazione deve solo fornire un contesto per il gameplay, deve dargli significato. “Tuo fratello è stato rapito e devi salvarlo”, è molto più interessante di “metti questo pixel bianco su quel pixel marrone, premi quel tasto e riceverai un pixel rosso”, anche se poi, di fondo, i giochi sono esattamente questa cosa qui. Ma “Tuo fratello è stato rapito e devi salvarlo”… è una storia! Comunque sì, sono d’accordo, in Shadow of Mordor, anche se la storia non era splendida – e non sta a me dirlo, lo dicano altri, non mi infilo in quella discussione – ma anche fosse, i giocatori creano comunque il proprio divertimento. E il punto dei giochi sta lì.

Riguardo agli sviluppatori che cambiano il loro approccio al design sulla base di Deus Ex… tu mi hai un po’ rovinato Half-Life 2!

Oh no!

Arrivando da Deus Ex, quando giocai a Half-Life 2, che ovviamente ho amato, ma… ho passato un’ora a mettere una cassa sopra l’altra per arrampicarmi sopra a un recinto, una cosa che avevo fatto in Deus Ex, ma quando finalmente ci sono riuscito, in quel punto di Half-Life 2, ho scoperto che c’era sopra un muro invisibile. Insomma, mi hai rovinato i videogiochi che non offrono quel grado di libertà!

Beh, mi spiace di averti rovinato Half-Life 2, anch’io l’ho amato! In Valve, quando ancora sviluppavano videogiochi, erano i maestri dei giochi in stile montagne russe. Eri completamente su binari, sapevano tutto quello che avresti fatto, la decisione importante era “Come ammazzo quella creatura?”… Proprio per questo, creavano esperienze emozionantissime, perché sapevano costantemente cosa stavi facendo. Ecco, secondo me, giochi di quel tipo, come anche Tomb Raider, The Last of Us, giochi che sanno quello che fai ad ogni passo, possono darti esperienze incredibilmente emozionanti… mentre vedo i miei giochi quasi più come esercizi intellettuali. Voglio che il giocatore pensi tanto quanto prova emozioni… Sono cose diverse, non ne faccio questione di meglio o peggio, sono contento che esistano giochi come The Last of Us e Half-Life 2.

Anche giochi come Gone Home o Everybody’s Gone to the Rapture, quella specie di sotto-genere super incentrato sulla narrazione e completamente diverso da quello che fai tu…

Sì, e adoro quei giochi!

E anche in quell’ambito, soprattutto su piattaforme mobili, ci sono comunque giochi che ti permettono di pasticciare, prendendo decisioni e costruendo la tua storia, magari anche con all’interno degli elementi procedurali…

Siamo in un momento molto interessante: nessuno sa cosa aspettarsi dal futuro, non c’è un modello di business che funzioni davvero, se sei uno sviluppatore indipendente e hai una grande idea, puoi usarla per raggiungere un pubblico… sta succedendo di tutto. È un momento fantastico, in cui non è necessario sviluppare un gioco tipla A o avere una IP famosa, tutto è possibile. E quindi c’è questa scena indie così florida, in cui si vedono cose eccezionali. Alcuni mi odieranno per questo, ma la miglior esperienza di gioco che ho avuto di recente? Giocare a Florence sul mio iPad. Ed è un gioco completamente diverso da qualsiasi cosa che io abbia sviluppato o svilupperei! Ma allo stesso tempo, mi ha ispirato un sacco. Ci sono davvero tante possibilità, ed è fantastico.

Nel corso della tua carriera, hai lavorato a vari livelli su tanti giochi importanti, seminali. Poi ti sei tolto la soddisfazione di lavorare con Topolino. Quindi ho visto che sei andato a insegnare all’università e ho pensato “OK, è sazio”. Ma evidentemente no!

Sai cosa? La gente con cui ho lavorato, e anche la gente a cui ho insegnato, ha “assorbito”. Persone come Harvey Smith, Ricardo Bare e tanti altri, ora sviluppano i loro giochi e, spero, stanno facendo dimenticare alla gente la mia esistenza. Lo considero un grosso successo personale, vedere altre persone abbracciare le idee che ho aiutato a creare (non voglio prendermi tutto il merito). Ma insomma, sono trentasei anni che spingo e supporto un certo tipo di videogioco ed è bellissimo vedere altri che portano avanti la missione. Allo stesso tempo, voglio ancora sviluppare un paio di giochi e mostrare a questi sbarbatelli come si fa, ma è bello vedere come si sono diffuse le mie idee.

Ti ho sentito più volte parlare del fatto che la gente identifica i tuoi giochi solo con la tua figura e bisognerebbe dare maggior riconoscimento…

Sì, è folle.

Ma allo stesso tempo, forse, non è facile, perché un po’ come al cinema, tendi a identificare un film col regista, magari qualche attore, non puoi conoscere le centinaia di persone che ci lavorano…

Guarda, sicuramente penso sia un peccato che mi venga dato tutto il merito per così tanti giochi… senza Doug Church, Ultima Underworld e System Shock non sarebbero esistiti, poco importa quanto li abbia influenzati e quanto vi abbia contribuito. Senza Harvey Smith, Chris Norden e altri, Deus Ex non sarebbe esistito. Avevo l’idea originale, avevo una visione, chiusi gli occhi nel 1997, dissi “Questo è il gioco che voglio creare” e tre anni dopo esisteva. Ma furono loro a concretizzarlo. A volte scherzo dicendo che non lavoro davvero da venticinque anni: quelle persone accettarono la mia visione e la portarono a compimento. Insomma, mi viene dato troppo merito. Poi, certo, quando il gioco non funziona, mi becco tutta la colpa, quindi forse si controbilancia, ma bisogna riconoscere il lavoro del team, soprattutto dei lead. Lavoro tantissimo tramite loro. Anche oggi, ho un team da venti persone, ma ho un gruppo di leadership, il tech director, il design director, l’art director… lavoro costantemente con loro, giorno per giorno, gli scasso le palle sulla mia visione, ribadendo costantemente che gioco stiamo creando. Ma se la mettiamo sul piano del programmare, dello scrivere cose con la tastiera, del disegnare col mouse… io mi limito a fare il revisore, a dire anche “No, non è quello che voglio”, ma sta a loro gestire lo sviluppo e il lavoro creativo giorno per giorno. Non è il mio ruolo, non lo è mai stato.

Su un tema in qualche modo vicino: hai lavorato a vari livelli con Electronic Arts, con Disney, ora sei un indie… le hai viste tutte! E di recente si parla tantissimo dell’eccesso di crunch, della necessità di sindacati… il mio è un punto di vista esterno, non so letteralmente di che sto parlando, ma vedo che c’è sempre chi ribatte dicendo che la cultura del crunch è inevitabile, che i videogiochi si sviluppano così… cosa ne pensi?

Vorrei tantissimo che il crunch non fosse necessario e devo ammettere di aver fatto parte delle “marce della morte”. Ai tempi di Ultima VII Part Two: Serpent Isle (il titolo peggiore nella storia del videogioco), abbiamo fatto crunch sei/sette giorni a settimana per quasi un anno. È stato tremendo. Ma ci sono stati periodi di crunch su Epic Mickey, Thief, Deus Ex… Oggi punto a fare del crunch mirato. Prima di una milestone, prima di una fiera, è importante fare in modo di ottenere la massima qualità possibile, per quei momenti. In quei casi, chiedere alla gente di lavorare il sabato per un paio di settimane ci sta. Non solo: a esperienza mia, è davvero necessario. Ma allo stesso tempo, andare avanti per mesi o anni, lavorando sei giorni a settimana, dodici o sedici ore al giorno… non deve accadere. Non deve essere permesso. È un fallimento manageriale. Succede perché si è programmato male, perché un publisher non capisce come si sviluppano i videogiochi, è inaccettabile e bisogna smetterla.

Diciamo che è una cosa che ti puoi aspettare che accada quando parliamo di due ragazzi che sviluppano il loro primo gioco lavorando a casa… non sono in grado di gestirsi.

Esatto. E del resto, in questo settore, la passione fa da traino. In Origin, c’era gente che teneva il sacco a pelo sotto la scrivania e non voleva andarsene, anche se dicevi loro di farlo. Lo stesso in Looking Glass: “Vai a casa!” Ma si rifiutavano, perché volevano creare un capolavoro. Che fai? Gli metti la camicia di forza e li porti in manicomio? C’è gente tarata così e devi sperare di poterli aiutare a vivere una vita equilibrata. E soprattutto, come dicevi, in ambito indie, se è un progetto figlio della passione, farai tutto il possibile per portarlo a compimento.

Di recente è uscito Underworld Ascendant, che non è stato accolto benissimo. E mi è venuto in mente quando ti è successo qualcosa di simile ai tempi di Deus Ex: Invisible War. Forse, in entrambi i casi, la polemica è stata esagerata… o forse no? Cosa pensi sia andato storto?

Riguardo a Deus Ex: Invisible War, francamente, penso fosse un gioco migliore di quanto la gente gli abbia riconosciuto.

E sono d’accordo! Magari perché ci ho giocato con qualche anno di ritardo, quindi non avevo quella “conversazione” in testa, ma mi è piaciuto!

Poi, per carità, commettemmo degli errori, con quel gioco, senza dubbio, ma penso che il modo in cui la gente se ne ricorda sia peggiore rispetto alla realtà. Ma insomma. Riguardo ad Underworld Ascendant, credo siano accadute una serie di cose. Il team è stato troppo ambizioso! E siamo uno studio indipendente, avevamo un budget specifico con cui lavorare. Il team a Boston, che non è il mio team, io stavo lavorando su System Shock 3… credo abbiano cercato di fare troppo e abbiano finito per non riuscire a far bene quello che sono riusciti a inserire nel gioco. Inoltre, hanno avuto dei limiti di tempo molto stretti, grande pressione... non voglio farla troppo grossa su questo punto ma diciamo che il gioco è uscito quando doveva uscire. E credo tutti sapessero che probabilmente era troppo presto. Penso però che sia importante riconoscere al team di aver continuato a dedicarsi al gioco dopo il lancio e di averlo migliorato parecchio. Non sono sicuro se il terzo aggiornamento sia già stato pubblicato (l’intervista è stata registrata l’11 aprile, un giorno dopo la pubblicazione dell’aggiornamento), ma hanno cambiato tantissimo: la struttura di gioco, il sistema di salvataggio, elementi narrativi… hanno continuato a lavorarci un sacco e spero che i giocatori, a prescindere che gli abbiano o meno dato una chance all’inizio, ci provino ora. Spero che riconoscano lo sforzo del team per migliorare il gioco.

L’altro problema è Kickstarter. Devi dire alla gente che gioco stai facendo, prima di farlo. Ed è folle, perché lo sviluppo di videogiochi è un processo incredibilmente iterativo, in cui i giochi cambiano continuamente. Se ti dicessi cosa stavamo pianificando per System Shock 3 prima di cominciare, rimarresti stupefatto… magari in negativo, magari in positivo, non saprei, ma il punto è che i giochi cambiano durante lo sviluppo e la gente si aspettava che facessimo esattamente quel che avevamo detto durante la campagna su Kickstarter. E all’epoca, sostanzialmente, dicemmo: “Rifaremo il primo Ultima Underworld, vi offriremo quell’esperienza”, ma poi ci siamo resi conto che non volevamo offrire quell’esperienza. È un gioco del 1992! Insomma, abbiamo generato delle aspettative, e non sto parlando necessariamente di qualità, quello è un altro discorso, ma abbiamo generato delle aspettative sul gioco che avremmo sviluppato e poi, a essere completamente onesti, non le abbiamo soddisfatte.

Se metti assieme questi fattori, il gioco doveva uscire, avevamo risorse limitate e non abbiamo offerto il gioco che avevamo promesso… i giocatori si arrabbiano, è ovvio.

Tra l’altro, subito prima, stavo parlando con Anya Combs di Kickstarter e… uno dei problemi con Kickstarter è che la gente è abituata a vedere i giochi annunciati molto più tardi, quando – in genere – è già abbastanza chiaro come saranno, e probabilmente alcuni giocatori non riescono ad accettare che Kickstarter sia qualcosa di diverso.

Mi hanno proposto articoli su System Shock 3, ci hanno offerto copertine su riviste, ma ho rifiutato. Ed è una sofferenza, rifiutare, ma è troppo presto, non sono ancora pronto per parlare del gioco, perché siamo ancora nel pieno di quel processo iterativo in cui cambiamo idea sulle cose, mentre le costruiamo, mentre creiamo i sistemi. Nel momento in cui abbiamo la possibilità di giocarci, il design cambia. La storia cambia per riflettere le cose che è possibile fare nel gioco, e che sappiamo che è possibile fare solo ora che esiste in forma giocabile. E insomma, è troppo presto per parlarne, ma con Kickstarter… Oltretutto, oggi le aspettative dei giocatori sono cambiate: la gente vuole essere coinvolta nel processo di sviluppo dall’inizio alla fine e questa cosa mi mette a disagio. Insomma, non parleremo di System Shock 3 ancora per un po’.

E, per tornare a quello che si diceva prima, non me ne ricordavo e sul momento mi ha sorpreso sentirti dire che non hai lavorato su Underworld Ascendant, perché è il tuo studio e tendiamo a identificare i giochi del tuo studio come i tuoi giochi.

No, diciamo che ho fatto da consulente. Giocavo alle build, davo del feedback, a volte mi hanno ascoltato e a volte no, ma no, non era un mio gioco.

Mi hai più o meno già risposto quando mi hai parlato di Florence, ma mi piace concludere le interviste chiedendo quale sia l’ultimo gran gioco a cui hai giocato e perché lo ritieni un gran gioco.

Beh, l’ultimo gioco a cui ho giocato, o che comunque ho completato, è Florence. Cosa ha di grande? Lo chiamo una specie di gioco (“a game-like thing”). Racconta una storia meravigliosa sulla crescita di due persone attraverso una relazione, fai avanzare la storia attraverso dei minigiochi veramente ben pensati. Il modo in cui simulano, tra virgolette, come le persone parlano fra di loro in una relazione e il modo in cui la relazione cresce, l’intimità cresce… è davvero intelligente. Non hanno bisogno di parole, non usano parole, usano il linguaggio dei giochi per esprimere come la gente comunica, o non comunica. Ho trovato la storia bellissima, mi sono identificato coi personaggi e non credevo fosse possibile raccontare una storia d’amore attraverso il gameplay ma mi hanno dimostrato che mi sbagliavo completamente. È stata una rivelazione!

Detto questo, quando sto sviluppando un gioco, tendo a non giocare molto. Ho finalmente recuperato e finito West of Loathing, perché lo stile visivo mi intrigava troppo. Mi piace quando un gioco ha quel genere di coraggio… quella grafica? Mi farebbero a pezzi se provassi a fare una cosa del genere. E sto giocando un po’ a Mario Kart. Cerco di giocare a cose che non abbiano nulla a che vedere con ciò su cui sto lavorando. Poi, certo, ho giocato a Prey, anche se non ho ancora giocato al DLC.

Beh, quello è simile a ciò che stai facendo, penso il migliore degli esempi recenti.

È molto in stile System Shock, sicuramente. E la verità è che di recente gioco più che altro a System Shock 3.

E ovviamente è il gioco migliore a cui hai giocato di recente.

Non ancora. Ma lo sarà!

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