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Sospesi nel tempo è la crasi di Ghostbusters e Ritorno al futuro

Sospesi nel tempo è la crasi di Ghostbusters e Ritorno al futuro

Nella seconda metà degli anni Novanta, Peter Jackson, in cima ai suoi trenta, non era ancora quel Peter Jackson, bensì il tizio da circolino autore dei B-movie di culto Fuori di testa (Bad Taste) e Splatters - Gli schizzacervelli, misteriosamente seguiti da un film tenero, e alla medesima morboso, come Creature del cielo.

Sempre in quel periodo, il suo coetaneo Michael J. Fox si trovava a fare i conti con i primi saliscendi di una brillante carriera. Ormai era troppo vecchio per i ruoli da teen-star in una Hollywood che, nel frattempo, era passata dalla celebrazione dei tizi sgamati della porta accanto come lui o Broderick, ai bellocci tribolati in stile Depp, Pitt o DiCaprio. Certo, la fuori c’erano ancora un sacco di commedie brillanti o serie TV, tipo Spin City; ma purtroppo iniziava ad esserci anche il Parkinson, che all’attore era stato diagnosticato nel 1991.

Spostandoci dalle nostre parti, e scendendo parecchi gradini della scala sociale, io, nella seconda metà dei Novanta, passavo una discreta fetta di tempo libero a bighellonare tra videogiochi e i filmini di Telepiù. E fu proprio a bordo della pay TV berluscona che incrociai per la prima volta Sospesi nel tempo - The Frighteners, in originale - sesto lungometraggio di Jackson, uscito nel 1996, che metteva miracolosamente assieme due tra le fisse cinematografiche del me ragazzino: Ritorno al futuro e Ghostbusters. E già che c’era, ci infilava pure l’omaggione a Kubrick attraverso la comparsa di un redimorto R. Lee Ermey in versione Sergente Hartman.

«Tu l'aria del cadaverone non ce l'hai neanche un po', e quindi il cerchio si restringe!»

Era praticamente impossibile, sulla carta, non amare Sospesi nel tempo, e infatti lo amai intensamente pure su pellicola, anche se sarebbe meglio dire via decoder e videocassetta, visto che non ho mai avuto la fortuna di incrociarlo al cinema.

Adoravo quel Michael J. Fox con la zazzera corta, le tribolazioni e tutto il kit di attrezzature scalcinate, misto a modi da imbonitore tipici di ogni acchiappafantasmi che si rispetti. Dietro l’atteggiamento scanzonato e un po’ triste del suo Frank Bannister, c’era un Marty McFly a cui le cose non erano girate per il verso giusto, e tutta la backstory alle spalle del personaggio, a prenderla sul meta, non faceva che tamburellare su questo parallelismo.

La prima volta che vidi il film, tra le altre cose, non avevo la minima idea che Michael J. Fox fosse afflitto dal morbo di Parkinson, ché l’attore avrebbe reso nota la sua situazione soltanto nel 1998. Per me era ancora tutto OK. Quello era sempre Marty, con le faccette buffe, le mossette da ganzo in stile Saturday Night Live e cose così. Giusto un filo dimesso in via dell’età e degli acciacchi del personaggio, ma niente di cui preoccuparsi.

E magari è vero, eh. Magari non c’era ancora di che preoccuparsi troppo, perché insomma, che diavolo ne so io del decorso del Parkinson e di come si abbatte sulle persone? Un bel niente, ecco cosa diavolo ne so. Eppure, quando mi sono rivisto il film ieri l’altro per buttare giù ‘sto pezzo, non sono riuscito a evitare sovrainterpretazioni, e ho finito per rileggere ogni singolo ciak dell’attore all’ombra della malattia. Brutto da dire, ma è andata così. 😞

Senza “magari” di mezzo, di contro, ho trovato davvero fuori forma la CG degli effetti visivi, che già all’epoca non mi era sembrata particolarmente prodigiosa, sì, ma nemmeno mi aveva colpito in negativo. Direi che l’avevo vissuta con una certa neutralità, il che probabilmente significa che era OK, mentre a rivederla oggi fa più o meno lo stesso effetto degli animatroni o dei pupazzi in stop-motion di certi horror degli anni Ottanta.

Immagine: Questa scena è stata omaggiata da Ubisoft in Assassin's Creed Unity.

Ogni volta che gli spettri vengono deformati, schiacciati o impastati al computer, sembra di assistere a una qualche tech demo per PlayStation 2, in un trionfo di estetica nostalgico-retrofuturista evidenziata pure dalle occasionali comparsate a schermo dell’internet del 1996.

Sempre andando giù di revisionismo, è buffo notare come il primo film veramente mainstream dell’ex regista di B-movie, nonché il lungometraggio dal periodo di lavorazione più lungo mai approvato dalla Universal (che Jackson e Zemeckis, qui in veste di produttore e “padrino”, avevano coinvolto in sede di finanziamento e distribuzione), a rivederlo oggi, assomigli veramente a un B-movie, ma tant’è.

A non aver perso carattere, invece, sono la freschezza dello script e la messa in scena. Il primo, curato da Jackson e dalla moglie Fran Walsh, al netto di un lore che pare la versione tamarra di Ghost, con tanto di vermoni giganti in CG in vece delle ombre infere, tesse una storia affascinate, ricca di delizioso humour nero e contestualmente complessa. Con un paio di colpi di scena ben piazzati, momenti totalmente creepy a base di fantasmi che seviziano mummie e agenti dell’FBI fuori di testa ossessionati da Manson, alternati ad altri deliberatamente horror.

All’epoca, l’estetica di Jackson era già perfettamente riconoscibile. In Sospesi nel tempo, compaiono in nuce tutte quelle soluzioni (primi piani, piani sbilenchi, uso del grandangolo e movimenti di macchina rapidi) che il cineasta avrà modo di spingere al massimo, qualche anno dopo, nella trilogia de Il signore degli anelli.

E già che ho tirato in ballo Il Signore: a ‘sto giro, ogni volta che vedevo svolazzare il mantello spettrale dell’assassino, finivo inesorabilmente per pensare ai Nove. Soprattutto, sono abbastanza sicuro che nella sequenza del ristorante a tema medioevale, un cameriere indossasse l’armatura di Gondor. Giuro!

Éowyn mentre affronta il Re stregone di Angmar.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Luigi e ai fantasmi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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