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Racconti dall'ospizio #192: Grand Theft Auto e i rumorini divertenti dei pedoni investiti

Racconti dall'ospizio #192: Grand Theft Auto e i rumorini divertenti dei pedoni investiti

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

“Splatch” era grossomodo il suono di quando schiacciavi qualcuno nel primo Grand Theft Auto, che nessuno chiamava ancora GTA. Ci avrebbero pensato direttamente i publisher col secondo capitolo. Era un suono bello cicciotto, come a spremere un tubetto di ketchup, e infatti il rosso sull’asfalto sembrava davvero succo di pomodoro.

Era il 1997 e, in un mondo ormai travolto dalle tre dimensioni, ecco che arrivava, con la sua visuale dall’alto e un look da Micro Machines, questo giochino, piccolino, col personaggino, la macchininO. E puoi fare tutto. No, non è vero, non puoi fare quasi nulla, rispetto a oggi, ma fai quel poco che basta per farlo sembrare tutto. Dal quel giochino-ino, è nata la serie che ha guadagnato e venduto di più nella storia dei videogame e persino dei media in generale. A pensarci, è come esserci stati quando nel 1928 nei cinema passava Steambot Willie e anni dopo aver detto “Hai capito, quel pirletta di Disney, cosa ha tirato su?”.

Grazie al movimento della telecamera nel video qui sopra, ho avuto dei conati di vomito.

Fa anche strano come non ci sia da nessuna parte il logo Rockstar, visto che all’epoca lo sviluppatore si chiamava DMA Design (poi diventato Rockstar North, per la precisione) e il publisher non Take Two, ma BMG Interactive. Sembra di parlare della preistoria.

Ma, dicevo, il rumore della gente schiacciata. È uno di quei suoni che mi resteranno in testa per sempre, come la monete di Super Mario Bros. (come tantissimi suoni di Super Mario Bros.), i frutti wumpa di Crash Bandicoot, il punto esclamativo di Metal Gear Solid. E qui la persona schiacciata. GTA aveva già iniziato col piede giusto, per farsi odiare dai perbenisti. La trama era semplice: eri un criminale di mezza tacca che doveva semplicemente lasciare la città e, quindi, faceva un favore dietro l’altro ai potenti di turno, fino a guadagnare la somma necessaria per passare alla metropoli successiva. Erano tre: Liberty City, San Andreas e Vice City. Nomi che poi sarebbero tornati, in tre giochi che avrebbero segnato ancora di più la storia del medium videoludico.

Nessuno si impegnava però davvero a cercare di proseguire con le missioni. Perlomeno da bambini. Il bello di Grand Theft Auto, con quella sua visuale a volo d’uccello (di ambienti comunque 3D) e quegli sprite 2D per i personaggi, era andare in giro a rubare auto e investire tutti, ridendo come scemi. Poi si inserivano i trucchi, si otteneveno il bazooka e il carro armato e via di distruzione totale. Roba che poi è diventata prassi anche nei capitoli successivi, almeno fino al quarto, che ha un po’ alzato l’asticella della narrazione e di quel realismo, che, secondo me, ha raggiunto un ottimo bilanciamento con Grand Theft Auto V.

E se ne parlava nel podcast su PlayStation Classic: se fallivi una missione, questa restava fallita. Non ricordo nemmeno se nella versione PlayStation (uscì anche su PC) potessi salvare sempre, ricordo ci fossero delle password. Quindi, era doppiamente un palo nel didietro. E niente radar, orientamento is the way, magari usando la mappa allegata col gioco (e se piratavi, sucavi). Oggi siamo viziatelli, mi sa.

No, dai, viva i radar e le minimappe, cazzo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a PlayStation Classic e alla prima PlayStation, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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