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Zombie contro zombie è un titolo insensato per un gran film

Zombie contro zombie è un titolo insensato per un gran film

Tipicamente, tolte le proiezioni speciali di classici, a rassegne come il Paris International Fantastic Film Festival vengono proiettati film ancora non giunti nelle sale. A volte sono in attesa di trovare accordi per la distribuzione, in altri casi si tratta di lievi anteprime, ma in linea generale quello sono: anteprime. Chiaramente, ci sono delle eccezioni e mi fa molto piacere scoprire che One Cut of the Dead, pur ancora inedito qua in Francia, sia giunto in Italia un mese fa, con una distribuzione tempestiva ben diversa da quella a cui siamo abituati per il cinema di genere nipponico. D'altro canto, si tratta di un caso particolare, un piccolo fenomeno nato come produzione minuscola da tre milioni di yen (meno di venticinquemila euro), infarcito di esordienti e proiettato in poche sale di Tokyo, ma poi accolto trionfalmente in vari festival e rilanciato nei circuiti cinematografici del Sol Levante per incassarne ottocento milioni, di yen (oltre sei milioni di euro). Insomma, è chiaro che l'impeto con cui si è presentato ai distributori internazionali non è quello dell'opera autoriale ermetica o della follia delirante di Takashi Miike.

Fa meno piacere scoprire che in Italia sia uscito come Zombie contro zombie, più che altro perché non riesco proprio a capire quale sia l'idea da cui nasce questo titolo. Ma ammetto di averci pensato solo per qualche secondo.

Fa enormemente piacere averlo trovato splendido. Ma veramente, veramente splendido. Leggo in giro frasi roboanti tipo "La miglior commedia horror dai tempi di Shaun of the Dead" e alla fine mi sa che hanno ragione, ma nella maniera più positiva possibile, perché in fondo non è che di commedie horror davvero belle ne escano molte, quindi non sarebbe poi 'sto gran risultato, di suo. Ma lo è. Roba che se anche il mio PIFFF 2018 finisse qui, sarei soddisfatto.

Lo spunto di partenza è una cosa non necessariamente nuova, anzi, ma realizzata alla grande e con quell'adorabile personalità tipicamente orientale che le regala una marca in più. C'è una troupe cinematografica che sta girando un film di zombi in una specie di fabbrica abbandonata, il regista sembra essere un po' fuori di testa, improvvisamente pare che qualcosa non torni, arrivano gli zombi veri e tutto viene ripreso in piano sequenza, senza stacchi per qualcosa come quaranta minuti, attraverso la soggettiva di un operatore di macchina. Nulla di particolarmente originale, no? Già qui, però, emerge una certa carica, nella comicità dirompente, nel gran ritmo, nella realizzazione molto precisa e solo apparentemente amatoriale, in quei due o tre momenti di sana inquietudine, che ti sorprende proprio perché spennellata in mezzo al demenziale, nel modo in cui si gioca col metacinematografico, non facendoti capire bene se e quanto regista, cameraman e fonico entrino ed escano dalla finzione, venendone essi stessi coinvolti.  In più, ci sono piccoli elementi di rottura, passaggi in cui non è chiaro cosa stia accadendo, lampi di follia completa, anche passaggi a vuoto che sembrano trascinare il film nel gorgo dell'amatorialità becera. "Sembrano", però, è la parola chiave.

Verso metà, arrivati al punto in cui, volendo, potrebbe chiudersi tutto all'insegna del mediometraggio, One Cut of the Dead piazza la svolta, grazie alla quale il film sale ulteriormente di livello. Lo fa alzando - se possibile - ancora l'asticella della comicità, mostrando un livello non banale di complessità tecnica, consapevolezza tematica e strutturale, semplice bravura nella realizzazione, e sostituendo gradualmente la lieve inquietudine con un elemento umano e qualche sprazzo di adorabile dolcezza, che fanno veramente da ciliegina sulla torta.

Una roba così, solo i giapponesi. Sul serio.

È una svolta che il trailer suggerisce (fra l'altro, il trailer internazionale lo suggerisce in chiusura, quello italiano lo suggerisce in avvio, chissà come mai?) e le sinossi ufficiali spiegano per bene, ma io, che del film sapevo poco o nulla, mi sono divertito un sacco a scoprirla gradualmente, quindi qui ci metto un avviso: se non l'avete visto e vi ho incuriositi, smettete di leggere, lasciate perdere il trailer, guardatevi il film - che, lo dico per gli schifiltosi, di horror ha in effetti poco o nulla - e, al limite, tornate poi.

Terminato il piano sequenza, il film cambia registro, inizia a utilizzare montaggio, fotografia, qualità estetica e delle riprese di un certo spessore, allontanandosi dall'estetica da found footage della prima parte. E va a mostrare il dietro le quinte della lavorazione di quello che, all'interno della finzione narrativa, è effettivamente un film di zombi, girato interamente in piano sequenza e trasmesso in diretta. Per un po', continua a non essere chiaro se sia tutta finzione o se, all'interno del racconto, il regista abbia davvero fatto qualcosa di indicibile e sia finita con tutti morti ammazzati, ma pian piano le cose si svelano con grande maestria. Vengono raccontate le premesse di lavorazione, facciamo conoscenza con la famiglia del regista e ci ritroviamo poi a seguire il giorno di riprese, osservando "da fuori" il lavoro fatto per realizzare il film. Là dove il piano sequenza visto nella prima mezz'ora abbondante era vero - e poi, sui titoli di coda, in un ulteriore balzo al di fuori della finzione e verso la realtà, vediamo le vere riprese registrate attraverso una GoPro - nella seconda metà di film ne osserviamo una ricostruzione romanzata all'interno della finzione, in una sorta di meraviglioso inception metacinematografico.

E improvvisamente tutto torna: ogni cosa che nel piano sequenza pareva folle o fuori posto viene mostrata da un'angolazione diversa e spiegata come figlia d'imprevisti, inciampi, problematiche, risolte in corsa grazie alla forza dell'improvvisazione e della disperazione. La quantità di dettagli che si inseguono e vengono elaborati è clamorosa, le risate fanno sfiorare le lacrime e, mentre ci si diverte a chiacchierare di film, processo creativo, finzione cinematografica, tecnica, arte dell'arrangiarsi, si sviluppa anche un semplice ma delizioso racconto sul rapporto fra un padre, una madre e una figlia, con un tripudio finale in cui tutto va ad unirsi in maniera toccante. Ed esilarante.

Titoli di coda, applausi e ululati in sala, tripudio esistenziale.

Che belli, i giapponesi.

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