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Una volta, qui, era tutta Second Life

Una volta, qui, era tutta Second Life

Nel novembre del 2006, un articolo pubblicato sulla testata online Punto Informatico si apriva con un titolo pieno di entusiasmo.

Second Life, il futuro è qui, ora

Lo dice Amazon, che punta sul crowdsourcing per fare della seconda vita, quella elettronica, un nuovo business. Là si macina anche sul browser 3D del futuro, come lo chiama qualcuno. Il metamondo è una fucina di idee e progetti

E a un sacco di gente sembrava veramente così. Nell’aria c’era quest’idea che le piattaforme social, qualunque cosa rappresentassero per l’epoca, si sarebbero sviluppate a immagine e somiglianza del mondo reale, tipo The Sims; sorta di ambienti virtuali (ma senza VR) popolati da avatar antropomorfi. Le aziende erano in fermento, tutti volevano colonizzare con il proprio business il nuovo mondo online lanciato da Philip Rosedale e dalla società americana Linden Lab, e vent’anni prima dell’attuale quarantena, diversi analisti erano disposti a giurare che, di lì a poco, ci saremmo trasferiti tutti su Second Life. Che ci saremmo dati appuntamento con gli amici davanti a questa o quell’altra caffetteria digitale, fatto shopping, chiacchierato, bazzicato mostre, concerti e cose così.

Di quel momento di ottimismo, senza andare troppo lontano o coinvolgere nomi di peso, su internet è possibile incrociare testimonianze e foto anche nostrane, tipo quelle di una festa dell’Unità organizzata su Second Life nel giugno del 2008, con tanto di concerto – in streaming live, non precotto – del gruppo emiliano Fiamma Fumana.

Dodici anni fa, questo era il futuro.

Il relativo successo dell’esperimento sociale di Rosedale fu sufficiente a convincere Sony a investire su una piattaforma proprietaria, PlayStation Home, destinata nelle intenzioni a trasformare la neonata PlayStation 3 in un ecosistema dove cazzeggiare alla maniera di Second Life, ma senza PC tra le balle, ché in fondo, oh, “se non ora, quando?”, ma soprattutto “se non noi, chi?”. I videogiocatori parevano il target perfetto per quel tipo di esperienze, in via della generale inclinazione al digitale e di tutti gli anni passati a smanettare con gli editor di GdR e compagnia. Eppoi, in fin dei conti, anche Nintendo con i Mii stava cercando di misurarsi in quella direzione (come al solito alla sua maniera, e con i suoi tempi).

La prima open beta di PlayStation Home fece la sua comparsa sui server di Sony nel dicembre del 2008, e ricordo che la scaricai subito per farci un giro. Premesso che all’epoca non avevo tutta ‘sta esperienza con Second Life, l’approccio di Sony mi parve gradevole; forse un po’ fighetto, con quegli ambienti che parevano usciti dalla matita del tizio architetto di Heavy Rain, ma comunque in linea col posizionamento maturo di PlayStation 3.

PlayStation Home prometteva benessere.

Va detto che, da quell’esperimento in avanti, le mie materializzazioni tra le pareti di PlayStation Home furono piuttosto rade; in parte per una scarsissima attitudine agli editor e ai pasticci vari, ma soprattutto in via di due enormi meteoriti che si stavano abbattendo sulle piattaforme “antropomorfe” à la Second Life: Facebook e l’iPhone.

Il primo era stato lanciato da Zuck nel 2004, e nel giro di qualche anno era riuscito a emanciparsi dall’ambiente dei college americani, soppiantando Myspace e compagnia. Il botto grosso, tuttavia, arrivò nel 2007/2008, a cavallo della crescente diffusione di smartphone e tablet, che si rivelarono i suoi simbionti ideali.

La convergenza tra Facebook e iPhone vari è stata probabilmente la prima scossa di quella frana digitale che nel corso degli ultimi, toh, dieci anni, ha modificato il nostro modo di vivere, sia nel bene che nel male, rendendo immediatamente vetusti e pesantissimi Second Life e compagnia.

Giusto una fotina per ricordare Miiverse, lo sfortunato esperimento social di Nintendo lanciato nel 2013 e chiuso solamente quattro anni dopo.

Sì, perché mentre Sony, Linden Lab e compagnia investivano risorse in veri e propri spazi digitali alternativi, dal basso erano emerse tutte queste piattaforme che puntavano sulla leggerezza e, soprattutto, sulla capacità di coesistere con la vita di tutti i giorni.

Così, se attorno al 2005 in molti erano convinti che la socialità si sarebbe espressa in mondi virtuali sempre più complessi e verosimili, dieci anni dopo, a portare a casa il risultato furono interfacce modellate su linguaggi e segni apparentemente “vecchi” (bacheche, foto, testo scritto), che sostanzialmente erano riuscite a canalizzare le prassi di forum e sistemi di messaggistica istantanea in uno standard unico, riconoscibile e facilmente accessibile dalla maggior parte di noi.

Di fatto, con Facebook abbiamo l’esplosione del social network generalista, che organizza le informazioni della rete in una sorta di “palinsesto” ampiamente personalizzato. Che poi questa caratteristica sia stata strumentalizzata e gestita a minchia, andando ad alimentare il merdone politico degli ultimi anni, è un altro discorso.

Il merdone.

Ad ogni modo, con l’espansione dei social network leggeri, le idee e le interfacce di Second Life e PlayStation Home tornarono sostanzialmente da dove erano venute, ossia nei videogiochi.

Nell’ottobre del 2010, World of Warcraft raggiunse il picco dei dodici milioni di abbonati e, assieme alla parte prettamente ludica composta da incursioni, missioni e livellamenti, coesisteva una fitta rete sociale composta da persone che loggavano anche solo per fare due chiacchiere con gli amici della gilda e tenersi aggiornati. A questo bisogno, l’interfaccia di Blizzard rispose prontamente, dimostrandosi straordinariamente flessibile nella gestione delle interazioni, anche attraverso chat, scritte o vocali.

Gente che si sposa in World of Warcraft.

Più in generale, proprio mentre Facebook e compagnia se ne andavano in giro attraverso gli smartphone, il sogno di un mondo virtuale si stava realizzando nei vari MMO e nelle esperienze di gioco online, che oltretutto godevano – e godono - della possibilità di alleggerire le conversazioni degli utenti attraverso i binari ludici, generando un substrato comune a prova di silenzi imbarazzanti.

In fondo, anche l’universo virtuale raccontato da Ready Player One nasce in seno ai videogiochi, e recenti fenomeni collettivi come il finale di stagione di Fortnite, l’evento a tema Star Wars tenutosi lo scorso dicembre nel drive in virtuale di Risky Reels (con tanto di J.J. Abrams in versione avatar), e soprattutto il recentissimo concerto di Travis Scott seguito da dodici milioni di persone, paiono usciti dalla fantasia di Cline.

«Apri tutto il lens flare!».

Così, se oggi parliamo di socialità digitale, da una parte abbiamo i videogiochi, dall’altra le piattaforme social più o meno generaliste, che al netto della loro influenza (in questa situazione di pandemia, Facebook con annesso WhatsApp rappresenta una vera e propria infrastruttura irrinunciabile), iniziano a dare i primi segni di stasi, perlomeno a livello creativo, seguendo apparentemente lo stesso arco delle televisioni private, sul genere “nasciamo incendiari, moriamo pompieri”. Anche le piattaforme più recenti, al netto dell’apparente aura di novità, non sono che variazioni (o sottrazioni) di un tema che inizia ad avere i suoi begli anni sul groppone.

Qualcosa di nuovo o potenzialmente interessante potrebbe saltar fuori dalla realtà virtuale. Tempo addietro avevo scritto che, durante il mio primo approccio col devkit di Oculus Rift, a colpirmi non erano state le esperienze di gioco più sparate, bensì la semplice rappresentazione di una stanzetta in stile anni Novanta. Ecco, l’idea di sfruttare gli spazi in VR per incontrare altre persone, senza necessariamente ricorrere al pretesto di un gioco, non dico che potrebbe trasformarsi in un successo (i numeri e la tecnologia, oggi, son quello che sono), ma quantomeno avere un senso

Giusto un paio di giorni fa, Luigi Marrone mi ha fatto fare un giro su Rec Room, una piattaforma compatibile con PlayStation VR e Oculus Quest, oltre che con Windows e IOS, che in mezzo ai vari giochini offre la possibilità di cazzeggiare in giro, farsii due chiacchiere, o esplorare gli spazi generati dagli utenti attraverso l’apposita cassetta degli attrezzi.

Seratissima in Rec Room.

A naso, sembra una roba interessante e potrebbe costituire non dico un punto di partenza ma, uh, qualcosa di vagamente simile a quello che sarebbe potuto diventare PlayStation Home se la storia non si fosse messa di mezzo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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