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The Lighthouse: l’orrore della convivenza forzata e altre paure

The Lighthouse: l’orrore della convivenza forzata e altre paure

Robert Eggers è un fenomeno nel mettere a disagio il proprio pubblico, avvolgendolo stretto in un’angoscia casalinga da cui è impossibile scappare e dove l’esterno, la fuga, o è impraticabile o è una soluzione addirittura peggiore, tanto che The Lighthouse era diventato, nel circolino di chi vive di cinema d’autore, il “film da lockdown” per eccellenza (in Italia arrivò il 19 maggio 2020), mettendo in scena tanto una convivenza forzata e decisamente inquietante quanto una situazione di isolamento totale e asfissiante.

“Adesso ti spiego una roba… ”

1890, un mese in mezzo all’Atlantico senza contatti con la costa, vitto e alloggio compresi, guardiani di un faro che svetta su un’isoletta che affiora appena dall’oceano, sferzata da un vento tagliente che trasforma le onde infrante sugli scogli in aerosol umido, appiccicoso, ghiacciato. Sembra di sentirselo addosso, il peacoat da marinaio, in lana pesante, che vestono Ephraim (Robert Pattinson) e Thomas (Willem Dafoe); le goccioline che si aggrappano alle fibre, il bavero che sventola come una bandiera. Un clima capace di sfinire fisicamente anche chi ha una tempra importante, soprattutto se il compagno più anziano, con la scusa dell’età e della superiorità gerarchica, scansa tutte le mansioni per affidarle al giovane. Thomas prevarica Ephraim in modo subdolo e continuo, lo ricatta ed esercita un predominio sullo spazio vitale schiacciante, che va dall’esclusività del faro, in cui si rifugia chiuso a chiave per ore, attratto dalla sua luce come una falena, fino alla camera da letto, dove la scena preferita del Peduzzi, in cui un Thomas che dorme beatamente tormenta con le sue scoregge l’insonne Ephraim, racconta perfettamente il rapporto tra i due. L’odio si mescola ad una costante e morbosa ricerca di rispetto, affetto, validazione, quella che un figlio cerca in un padre incapace di apprezzarlo.

A volte le fantasie erotiche prendono una strana piega.

Un disequilibrio che monta in rancore, come una tempesta in lontananza che si carica di energia, attingendo al cielo e al mare. Eggers non poteva certo immaginare che qualche mese dopo l’uscita del suo secondo film sarebbe scoppiata una pandemia, ma questo genere di rapporti, dove la necessità trasforma la convivenza in obbligo, era già a prescindere un terreno perfetto per sviluppare un thriller psicologico (argomento già sondato, in modo diverso, in The Witch) che parlasse dell’interazione obbligata tra due uomini sconosciuti, incompatibili, disturbati. Il regista ha dovuto solo portare le lancette indietro di un secolo abbondante e aggiungere l’elemento sovrannaturale, la superstizione, l’imponderabile. Entrambe le cose, la mancanza di stimoli che non siano l’illustrazione di una sirena con cui masturbarsi e il terrore di qualcosa d’“altro”, in agguato nella notte, hanno una soluzione altamente infiammabile: l’alcool. Grazie al nettare della distrazione, i due sembrano addirittura cominciare ad andare d’accordo, se solo col passare dei giorni e l’aumentare del dosaggio non contribuisse ad amplificare paranoie, sospetti e suggestioni che si annidano dietro le bande nere laterali che chiudono l’aspect ratio in un claustrofobico 1.19:1. Disinibiti, depressi, aggressivi. Le fantasie erotiche si materializzano in creature agghiaccianti, lo scatto d’ira che pone fine alla vita di un gabbiano, percosso e fracassato sul bordo di pietra del pozzo, scatena una tempesta che sa di ritorsione divina e credenza popolare.

Una normale situazione da prime sere di lockdown.

Il contatto con la realtà è totalmente perso, sfumato, poco importa se stiano sperimentando qualcosa di reale o un metaforico parto dei loro deliri; solo il faro rimane l’unica certezza, un rifugio, un’ossessione, simbolo di virilità che i due idealizzano e vogliono “conquistare” per dare un senso al loro essere uomini. La casa intanto cade a pezzi, allagata, simbolicamente distrutta dalla loro incapacità di costruire una relazione sana, collaborativa; ogni oggetto contundente è una scintilla perversa nella loro mente, capace di incendiare una furia omicida latente, un pensiero macabro e liberatorio. Il racconto cambia prospettiva, entrando sempre più a fondo nella testa dei due protagonisti, come un chiodo piantato a martellate nel cranio, facendosi allegorico e psicologico, come quando le parole di Allan Poe e Lovecraft iniziano ad insinuarsi nei pensieri e nelle paure dei personaggi, scivolando dall’esterno all’interno. Quello che lo spettatore vede è il rivolo di sangue che esce dalla ferita. Isolamento, odio, superstizione, alcolismo. Quando questi quattro temi convergono, allo scadere di un countdown invisibile, la pellicola si contorce e urla in preda a un delirio febbrile, da infezione, mostrando la devastazione psico-fisica di due uomini regrediti inesorabilmente a uno stadio primordiale, incapaci di gestire lo spazio e riconoscere il tempo ma solo di battersi il petto e urlare, soli al mondo, terrorizzati. E pur non essendo il film tratto da nessun racconto dei due scrittori americani, il regista è riuscito a stimolare le stesse corde che sapevano bene come pizzicare, traslando in chiave cinematografica (e quindi visiva) quella sensazione di ignoto insondabile, non approfondendo mai troppo l’aspetto surreale, ma lasciandolo lì, spesso dietro la camera, a consumare i personaggi, divorati un morso alla volta sempre al centro dell’inquadratura, gli occhi sempre più folli.

Il tunnel in fondo alla luce.

The Lighthouse mostra la grandezza di Eggers perché nel suo essere compatto e assolutamente intrigante anche da godere “dritto”, senza scavare troppo, è capace di creare suggestioni e sottotesti molto ben amalgamati, “fronte-retro”, a seconda del fatto che si voglia approfondire l’aspetto psicologico (di stampo freudiano), quello mitologico (le leggende marinaresche e i miti greci) oppure quello tecno-estetico, con un taglio anni Quaranta che non è (solo) hipster ma formalmente ideale per raccontare questo tipo di vicenda, dove il bianco e nero esalta l’illuminazione (naturale) e il contrasto delle scenografie, nonché l’artigianalità degli effetti speciali e l’enfasi recitativa degli attori. Poi, insomma, a me la voglia di farmi un mesetto a guardia di un faro è rimasta, però rigorosamente da solo e con uno Switch per mantenere un minimo di equilibrio mentale!

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vichinghi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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