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Solo: A Star Wars Story non è poi così male (anche se ogni tanto Vogler finisce nell'inquadratura)

Solo: A Star Wars Story non è poi così male (anche se ogni tanto Vogler finisce nell'inquadratura)

Ci sono poche, pochissime cose che vivo come una religione e di cui osservo rigidamente il dogma e i rituali, e Star Wars è una di queste.

Naah, scherzo, scherzo. :D

In effetti, già che ci rifletto meglio, non pratico praticamente nulla in termini religiosi, nonostante sia estremamente affascinato dalla mitologia e dal concetto di sacro. Si vede che, sotto sotto, sono una persona povera di spirito. Amen (nell’accezione del modo di dire, non della formula liturgica).

Però Star Wars mi piace, quello sì, e nel corso degli anni mi ha regalato dei momenti di cinema davvero splendidi, affiancati da altri un po’ meno riusciti, e persino da qualcuno proprio “meh” (oh, capita). Ecco, in una ipotetica classifica che avrebbe il suo apice ne L'Impero colpisce ancora e il suo punto più basso in La minaccia fantasma (per me, eh, ché ognuno può dire quel che vuole), il recente Solo: A Star Wars Story lo metterei più o meno in zona mediana, e senza farmi troppe menate.

Secondo film della saga pensato come spin-off dopo l’ottimo Rogue One, e primo diretto da Ron Howard (che, come è noto, ha preso in mano le redini del progetto in seguito alle “divergenze” tra Kathleen Kennedy e il duo Phil Lord e Christopher Miller, a cui era stata inizialmente affidata la regia), Solo: A Star Wars Story raccoglie la discreta responsabilità di raccontare le origini di Han Solo, uno dei personaggi più amati dai fan. L’onore - e l’onere - di scrivere il cammino del celeberrimo antieroe è toccato a Jon Kasdan e al padre Lawrence, quest’ultimo autentico veterano dell’universo di Lucas fin dai tempi de L’Impero colpisce ancora.

L’eredità di Harrison Ford, invece, è stata raccolta dal giovane Alden Ehrenreich (Blue Jasmine, Ave, Cesare!). A questo proposito, meglio togliersi subito il dente: se lo chiedete a me, Ehrenreich se l’è cavata benone. Il suo Han Solo ha perfettamente senso; l’attore non si è limitato a fare il verso a Ford, ma ci ha messo del suo. E ci sarà stata di mezzo anche la mano di Howard, per carità, ma la prima mezz’ora di film, a livello di magia, mi ha ricordato moltissimo l’antefatto di Indiana Jones e l'ultima crociata con River Phoenix nei panni del giovane Indy.

La mia potrebbe essere un sovra-interpretazione, una sovra-impressione o più semplicemente una gran minchiata; resta che il suddetto film di Spielberg viene citato perlomeno in un paio di scene, soprattutto durante un certo inseguimento a alta velocità.

In qualche scintilla, lo Han Solo di Alden Ehrenreich mi ha ricordato il giovane Indiana Jones di River Phoenix.

Volendo proseguire con le cose buone di Solo, c’è praticamente tutto il cast, che anche quando non brilla fa comunque la sua sporca figura. Woody Harrelson e Thandie Newton interpretano rispettivamente Beckett e Val, una coppia di contrabbandieri piuttosto credibile, mentre Paul Bettany presta i suoi lineamenti ambigui al perfido Dryden Vos, leader dell’organizzazione criminale Alba Cremisi. La pellicciona di Chewbacca è stata indossata ancora una volta da Joonas Suotamo, che già aveva affiancato Peter Mayhew ne Il risveglio della Forza, per poi raccoglierne definitivamente il testimone a partire da Gli ultimi Jedi (tra l’altro, senza fare spoiler, l’espediente narrativo che innesca l’alleanza tra Han e Chewie è particolarmente gustoso). Persino Emilia Clarke, qui nei panni di Qi'ra, la “fidanzatina” di Han, non mi è dispiaciuta, nonostante non vada pazzo per l’attrice in questione.

Poi, vabbè, sarà che sta vivendo il suo momento d’oro, sarà che il personaggio che interpreta è uno dei più simpatici della trilogia classica, ma il Lando Calrissian di Donald Glover è il meglio del mazzo. Narcisista, egocentrico e sornione, ogni volta che compare in scena si mangia il film; per non dire poi di tutti i siparietti comici e amorosi che mette in piedi con l’androide L3-37, doppiata in originale dalla Phoebe Waller-Bridge di Fleabag, e in generale altro personaggio della Madonna.

Stando a Jonathan Kasdan, Lando Calrissian sarebbe pansessuale. Con quella faccia, che gli vuoi dire?

In effetti, in Han: A Star Wars Story si ride un sacco. Perlomeno, io ho riso un sacco grazie a una serie di scambi dialogici scritti come si deve; alle battute buttate lì sempre al momento giusto, con gusto, persino nelle situazioni più drammatiche perché, ehi, per una volta a fare la parte del leone è sostanzialmente un gruppo di cazzoni, non qualche Jedi musone.

In questo senso, il tono del film è davvero e tipicamente Star Wars primissima maniera. Qualche volta persino un po’ troppo, ché certe scene si vede che sono state pensate a tavolino per ottenere quell’effetto lì, senza contare certi occhiolini GIGANTESCHI sparsi qua e là. Però, insomma, ad avercene. In fondo le cose deboli di Solo sono altre; tipo scrittura, ritmo e messa in scena.

Eh!

Come ci si sarebbe potuto aspettare da Kasdan padre e da un regista tanto affidabile quanto classico come Ron Howard (senza voler entrare nel merito di ipotetiche rotture di cazzo da parte di Kathleen Kennedy), l’avventura del giovane Han viaggia sempre sul sicuro, e non abbandona mai certe regole narrative hollywoodiane tracciate da Christopher Vogler. Oddio, questo vale per un sacco di film, e in generale, se la cosa viene gestita come si deve, non è mica un problema, anzi. Tuttavia, qui la faccenda è talmente spinta da risultare un po’ troppo programmatica, scoperta. Così scoperta che di tanto in tanto l’architettura della sceneggiatura viene a galla, e non è mai un bene, a meno che non si voglia impostare un discorso metanarrativo (e direi che non è questo il caso).

Tutto va avanti per inerzia, e questo pesa soprattutto sul ritmo della parte centrale del film. E se si può ben chiudere un occhio sulla faccenda della galassia dove girano sempre le stesse facce, in quanto cliché della saga - e più in generale della fantascienza in salsa fantasy - appare un po’ meno sensata la mancanza di adeguati raccordi emotivi tra alcune scene. Insomma, va bene la leggerezza, ma certe situazioni secondo me sono state lavate via troppo in fretta.

La messa in scena di contro è solida, come era lecito aspettarsi da Howard, ma purtroppo senza guizzi. Gli effetti visivi sono nella media, pur bilanciati da una buona aderenza all’iconografia della trilogia classica. Tuttavia, siamo lontani da certe trovate estetiche viste in Gli ultimi Jedi, o dalla personalità che Gareth Edwards è riuscito a imprimere a Rogue One. Siamo pure lontani dalla grinta di un Rush o dall’impronta di altri film di Howard, tanto per restare nello stesso campo da gioco.

Insomma, siamo davanti a un film piacevole, in larga parte riuscito ma, come dire, “medio”. E al netto del divertimento, uscito dalla sala non ho potuto fare a meno di domandarmi cosa sarebbe saltato fuori dalla regia di Phil Lord e Christopher Miller; sia nel bene che nel male, eh.

Ho visto Solo: A Star Wars Story in lingua italiana, perdendomi giocoforza le voci originali e i siparietti comici tra Donald Glover e la tizia di Fleabag. Magari recupererò la lacuna in qualche modo, chi lo sa. Ah, se vi siete presi la briga di leggervi tutta la pappardella che ho scritto, dove ho elencato i pregi ma anche i difetti del film, e non riuscite a darvi pace per il Frechete! Appiccicato qui sopra, tenete conto che i verdetti di Outcast non afferiscono a scale di giudizi né a un sistema di voti. Contano più che altro come suggerimenti. E alla fine della fiera, nonostante i problemi, questo Solo: A Star Wars Story mi sento di consigliarlo.

A long time ago in a galaxy far, far away.

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