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Resident Evil, venticinque anni di zombi imputriditi, cani infernali e ragni giganti | Racconti dall'ospizio

Resident Evil, venticinque anni di zombi imputriditi, cani infernali e ragni giganti | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Era la fine di agosto del 1996. Quel momento in cui realizzi che hai finito le vacanze e dovrai presto tornare a scuola. Come da tradizione del periodo, facevamo una reunion fra compagni di classe con la scusa di finire i compiti delle vacanze avanzati, anche se poi si finiva a fare tutt’altro. E in quell’occasione ci saremmo ritrovati, senza saperlo, a giocare per la prima volta a Resident Evil.

Il gioco Capcom era stato pubblicato in Giappone col titolo Biohazard nel marzo di quell’anno, diventando un “must play” in maniera abbastanza immediato, visti i voti stratosferici raccolti ovunque. Noi poveri utenti occidentali, in attesa spasmodica per la versione PAL, inondavamo la posta delle riviste specializzate chiedendo lumi sulla data d’uscita. Chi non ce la faceva proprio ad aspettare, si imbarcava in un’impresa che ai tempi sembrava titanica: cercare in zona un negozio di importazione parallela che vendesse il titolo e qualcuno che apportasse la famosa modifica alla console, in modo da poter leggere il disco giapponese, finendo poi per spendere molto di più e mettendo a rischio il funzionamento della console stessa, in quanto spesso modifiche di quel tipo davano poi problemi di natura tecnica, magari finendo per rendere la console completamente inutilizzabile. Alla fine andò anche bene a noi occidentali, visto che l’attesa per la versione PAL durò “solo” quattro mesi rispetto ai sei mediamente necessari per l’arrivo in Occidente dei titoli di matrice nipponica (a volte era necessario attendere quasi un anno), e Resident Evil giunse in Europa il primo agosto del 1996 (mi preme sottolineare che associo sempre l’anniversario dei giochi con la data PAL, quindi per me il “compleanno” cade il primo agosto, anche se è stato pubblicato prima).

Nessuna recensione, per quanto ben scritta, avrebbe mai potuto trasmettere lo stesso feeling delle ore spese all’interno di Villa Spencer. Ti ritrovi in quell’enorme magione senza sapere cosa ti attende, armato di una pistola con munizioni destinate a finire presto. Dopo lo shock dell’incontro con il primo non morto, ogni volta che entri in una nuova stanza non sai mai con cosa avrai a che fare. Cammini lungo un dedalo di corridoi strettissimi sempre col dito sul grilletto, perché hai sentito dei versi in lontananza e sai già che quegli zombie fatti di carne marcia ti stanno aspettando per banchettare. Poi, a un certo punto, realizzi che l’inventario limitato ti costringerà a una continua peregrinazione fra i pochi bauli sparsi per l’area di gioco, passando da una stanza all’altra, e quella mansion sembra talmente grande che ogni volta devi fare mente locale per capire dove andare (e grazie al cielo le riviste più accorte dell’epoca, come Game Power, avevano pubblicato la soluzione con tanto di mappe). Ti ritrovi con l’arma scarica, allora impugni il coltello pronto a fare lo slalom attraverso gli zombi sperando di trovare un caricatore il prima possibile. Passi lungo un corridoio già attraversato prima, vai tranquillo, sicuro che non succeda nulla e un manipolo di cani infetti entra sfondando le finestre, così corri fino alla porta e nel frattempo hai perso dieci anni di vita. Perché gli zombi erano solo il preludio di una minaccia ben più grande e pericolosa, fatta di serpenti e ragni giganti, piante geneticamente modificate, squali, hunter e quella mostruosità trash rappresentata dal Tyrant, boss finale da abbattere a colpi di bazooka prima di abbandonare per sempre quel luogo maledetto. Nel frattempo, sei morto almeno una dozzina di volte, e ti ritrovi a ripartire dall’ultima safe room visitata, magari dovendo ripetere una buona porzione di gioco.

Nonostante la nota influenza di titoli come Sweet Home e (soprattutto) Alone in the Dark, fu Resident Evil a dare il via al genere dei survival horror, entrando di prepotenza nell’immaginario collettivo come l’effettivo capostipite del genere, osando anche sfidare certi tabù del mercato dell’epoca, dove titoli particolarmente violenti finivano immediatamente nel mirino della stampa generalista e di varie associazioni solitamente capeggiate da genitori scandalizzati alla Ned Flanders.

Il resto è storia nota: il videogioco targato Capcom ha dato il via ad una lunga serie di successo composta da seguiti ufficiali, spin-off, serie parallele e remake, mutando spesso forma, passando prima a un approccio più action per poi adottare una prospettiva in prima persona, virando verso il dark fantasy come nel recente Village.

La mia prima esperienza con Resident Evil fu più “visiva” che effettivamente giocata, dovendo limitarmi soprattutto a veder giocare gli altri membri della combriccola; avrei successivamente visitato quel mattatoio di Villa Spencer almeno una decina di volte in tutte le sue salse, fra titolo originale, versione per DS e il remake del 2002, con l’ansia sempre oltre il livello di guardia.

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