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Persona 3 è un colpo di pistola | Racconti dall'ospizio

Persona 3 è un colpo di pistola | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

La sottigliezza…

A ripensarci ora, un gioco come Persona 3 poteva saltar fuori solo in Giappone. Una opening che, sul sottofondo di un pezzo crossover, mostra una giovane ragazza terrorizzata puntarsi una pistola alla testa. L’aperta sfacciataggine di chiamare il luogo dove il protagonista si reca “Iwatodai” (per i solutori meno abili, la soluzione al fondo). Un prologo insomma finalizzato ad introdurci quella che sarà, da qualsiasi parte la si giri, la storia di un suicidio.

Ah, ovviamente: “spoiler!!” sta benemerita ceppa.

E non per il fatto che stiamo parlando di un gioco uscito su PlayStation 2 nel 2006 e a cui TUTTI avrebbero dovuto giocare per legge, ma per il fatto che qualsiasi cosa io abbia scritto e scriverò non vi dirà nulla di ciò che è veramente Persona 3.

Come tutti quelli che ci hanno giocato, per capire cosa sia stato, dovrete intraprendere un viaggio e trovare la vostra risposta. Che sono poi i titoli dei due dischi che quei furbacchioni di ATLUS, continuando nella loro bella/brutta abitudine di fare i loro giochi più belli DUE volte (e, giuro, ancora non capisco perché non riesco a volergli male), pubblicarono con Persona 3 FES una versione riveduta e corretta del primo Persona 3, fatta uscire neanche un anno dopo, con una “after story” che introduce un nuovo personaggio e, in qualche modo, completa il finale.

E che ha una fra quelle che tutt’ora ritengo tra le migliori opening di un videogame, se non la migliore.

Il meglio.

Giocare a Persona 3 significa entrare per circa un centinaio di ore nella vita del protagonista, in un anno della sua vita, per la precisione, come spettatori. Siamo infatti dal lato più “narrativo” che “interpretativo” degli RPG: certo, possiamo scegliere come far rispondere il protagonista, avendo così la libertà di attirargli simpatie o antipatie, ma quella a cui assistiamo, come ci fa capire fin da subito la introduzione “anime”, è la “sua” storia e quella che andiamo a seguire è la prima di tre grandi riflessioni che Katsura Hashino, sceneggiatore dei capitoli dal terzo al quinto della serie, vorrà proporci.

Tema della riflessione: “il senso della vita” (sì, Hashino-sensei non è esattamente uno che la “tocca piano”).

Sintesi.

E per interrogarsi sul senso della vita, si parte dal suo opposto. In Persona 3, la morte è una compagna onnipresente (“Iwatodai”, ricordate?) e non nel senso che si muore parecchio (anzi, come in moltissimi JRPG, il livello di difficoltà è medio-basso), ma proprio come tema narrativo.

Del team di protagonisti, praticamente chiunque è marcato (o verrà marcato) nel profondo da un lutto. Persino l’intelligentissimo cane Koromaru manifesta la Persona Cerberus (ah-ah!) al solo scopo di difendere il tempio del suo anziano padrone, deceduto da poco. Solo Aigis, la meravigliosa bambola dotata di sentimenti, non condivide questo stigma, ma proprio per questa sua innocenza, è a lei che Hashino affida il commiato del capitolo principale (The Journey) ed è sulla sua “perdita di innocenza” che si basa tutto il capitolo aggiuntivo (The Answer).

Aigis… <3

Gli antagonisti, da parte loro, sono a tal punto permeati dallo stigma della morte che se avranno la benedizione di guardare di nuovo alla vita con speranza e desiderio, sarà solo morendo.

Anche tra i personaggi non giocanti con cui il protagonista intesse rapporti, i “Social Link” che sono la caratteristica perfezionata da Hashino per la serie, fino a diventarne il secondo simbolo, ce ne sono almeno due toccati dalla morte. Indirettamente, come i nonnetti che gestiscono la libreria e vogliono sapere dal protagonista come cresca nella scuola l’albero di kaki piantato a commemorare la scomparsa di loro figlio, professore; o direttamente, come il giovane scrittore condannato da un cancro incurabile.

Per tutta la narrazione, quindi, ci si confronta con la morte e la sua paura, e si è obbligati a pensarci fin da subito: puntando alla propria testa quegli “Evoker” che sembrano pistole, per evocare la propria Persona e di cui, giustamente, la prima protagonista femminile: Yukari non riesce a non avere paura. Capisce che non sono “innocue”, che quello che simboleggiano è chiaro, uccidersi e liberare la propria anima, senza possibilità di tornare indietro.

Non a caso, gli unici non dotati di Evoker sono Aigis e Koromaru: una bambola eterna e un animale, due esseri per cui vita e morte hanno un significato altro.

Il dramma.

Insomma, che pippone allucinante, eh?

No.

I Persona di Hashino sono DIVERTENTI! Hai il dramma, anche abbastanza peso, ma hai l’avventura, il fomento pazzesco delle migliori serie animate shonen: c’è, nella prosecuzione The Answer, uno fra i migliori One Liner da sparare in faccia al boss finale: “Suck to be you, big guy! ‘coz we ain’t gonna loose!”, che verrà poi affiancato, ma non superato dal “You screwed with the wrong people!” di Persona 5.

Ci sono i siparietti comici scemi che, davvero, aiutatemi a dire “SCEMI”: la gara di “cuccaggio” in spiaggia, l’incidente al Love Hotel (Yukari… ), l’obbligatorio “episodio termale” (sappiatelo: l’episodio termale nei Persona passa rapidamente da bagno caldo a bagno di sangue).

Approfondire le relazioni con comprimari e personaggi non giocanti è un piacere, non un grinding finalizzato puramente a pompare le statistiche: ciascuno di loro non solo ha gli obbligatori “segreti”, ma ha un carattere con tutte le implicazioni del caso e ha una esperienza di vita non necessariamente “positiva” (il bonzo corrotto o il truffaldino Tanaka delle “Televendite Tanaka”) ma sempre “educativa”.

Chiarezza d’intenti.

Chiarezza d’intenti.

Per altro, Persona 3 è anche l’unico dei capitoli di Hashino a penalizzare le scelte sbagliate e la trascuratezza nella gestione dei rapporti interpersonali, ma anche a mettere un pelino di “realismo” nelle love story: laddove i capitoli successivi si fermeranno ad una più o meno sincera “dichiarazione”, le donzelle di Persona 3 che si fanno invitare in camera dal protagonista lo fanno, come è giusto, con un obiettivo chiaro in mente (poi, oh, non è un hentai, quindi non sperate).

Infine, visto che alla fine di un videogioco stiamo parlando, il gameplay resta uno dei miei preferiti dai tempi di Final Fantasy VII e la gestione dei materia. Già solo combattere quasi unicamente tramite l’evocazione delle Persona, per un appassionato della prima ora de Le bizzarre avventure di Jojo (terza e quarta stagione über alles), è una vera goduria: ma farle crescere, modificarle e combinarle rende il tutto ancora più appassionante: creare le Persona perfette, portandosi dietro abilità accuratamente selezionate tra decine, a volte rinunciando ad averle subito pur di fare il jackpot al momento di massima crescita del Social Link collegato, è quasi più appagante che combattere nei dungeon.

Questo senza contare che ciò permette di passare del tempo con Igor ed Elisabeth, la mia preferita tra tutte le ospiti della Velvet Room.

Altrettanto appagante è scegliere le armi più adatte per protagonista e comprimari. Anche in questo caso, Persona 3 è un unicum rispetto agli altri: il protagonista “wild card” lo è non solo nella possibilità di avere molteplici Persona ma anche nella possibilità di usare ogni tipo d’arma tra quelle utilizzate dai membri del team: dagli spadoni ai guanti da pugilato ma, sopratutto, permetteva anche ciò che nei capitoli successivi sarebbe stato possibile solo “a pago”: ovvero di far indossare ai personaggi “armature”, diciamo… inusuali… (e godersi le loro reazioni).

Menare di soddisfazione.

Infine, anche due parole su alcuni tra i filmati che ho allegato a questo lungo articolo, non solo per compensare il fatto che molto del “footage” di gioco è a scarsissima definizione: tra il 2013 e il 2016, vengono pubblicati quattro film basati su Persona 3 The Journey (la storyline principale), ciascuno ambientato in una delle quattro stagioni dell’anno scolastico vissuto nella storia: Spring of Birth, Midsummer Knight End, Falling Down e Winter of Rebirth.

Grazie al materiale di partenza, AIC Asta e A1 Pictures hanno rilanciato con un remaster totale delle colonne sonore, coinvolto doppiatori di prima fila (anche se, come già ricordato: Miyuki Sawashiro già aveva dato la voce a Elisabeth nel gioco), ma sopratutto interiorizzato quella “riflessione” di cui parlavo all’inizio e, di conseguenza, prodotto quattro animazioni di prima classe, che hanno alzato, e di parecchio, l’asticella a cui chi volesse traslare un videogame in animazione deve mirare. Costituiscono, va da sé, la miglior scorciatoia per chi non ha tempo di prendere in mano il gioco ma vuole conoscerne la storia.

Ah no?

Tirando le somme, si potrebbe avere l’impressione che, nonostante LA BOTTA che è stato Persona 5, probabilmente il primo videogioco a farci completamente sentire dentro un anime, Persona 3, il datato Persona 3 uscito su un hardware sorpassato come quello di PlayStation 2, con le sue cutscene animate approssimative e di qualità altalenante, i suoi personaggi 3D poco più complessi di un Playmobil, la sua colonna sonora gracchiante, gli sia ai miei occhi superiore.

È così: Persona 5 è un JRPG praticamente perfetto, ma Persona 3 FES è un capolavoro e i capolavori non hanno bisogno della perfezione.

(*) Iwatodai = He wants to die. Dai, su!!

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent'anni di PlayStation 2, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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