Outcazzari

Gemelli omozigoti si uniscono allo staff del Chronicle

Gemelli omozigoti si uniscono allo staff del Chronicle

Io la sfortuna dei Muppet nell’intrattenimento contemporaneo non riesco a capirla. Hanno provato a riesumarli due volte negli ultimi anni con un riscontro di pubblico deprimente. Due film con un cast di attori di grido, giocato sulla loro assenza dalle scene per anni, un sequel passato sotto traccia e un revival del Muppet Show che è durato una stagione per poi essere chiuso.

E io questo scetticismo nei confronti dei Muppet, nella loro incapacità di veicolare nuovamente il contemporaneo come fecero all’epoca, ecco, io non ci credo. Dal punto di vista iconografico sono materiale vivo. Kermit è a tutti gli effetti un’icona della cultura pop anche senza l’infrastruttura narrativa che gli veniva creata con i film, anche senza il cast di comprimari: se sentiamo Rainbow Connection, pensiamo a lui, non a Willie Nelson.

Indovina chi di loro con gli anni si è rovinato con l’eroina.

Però è come se quella fiamma si fosse drammaticamente spenta, se quel tipo di comicità gentile e trasversale si fosse andato spegnendo e noi, a livello di cultura dell’intrattenimento di massa ci abbiamo rimesso. Sta di fatto che comunque restano inarrivabili le cose che hanno fatto durante la loro epoca d’oro, che periodicamente riguardo con affetto. 

Ora, è divertente come per me, prima di qualsiasi altra cosa, i Muppet fossero Giallo in casa Muppet (The Great Muppet Caper), il secondo film della serie prodotta da Frank Oz e l’unico diretto da Jim Henson. Ed è chiaro che per me sia stato il viatico per un certo tipo di comicità, che accoglie consapevole la parodia senza essere sfociare nel demenziale becero.

Insomma, i Muppet hanno sempre giocato con equilibrio dei toni che è legittimo infilare in un film per essere allo stesso tempo sia sé stessi che omaggio e imitazione di altro. Come accadrà dopo per L’Isola del Tesoro o Canto di Natale, ma con una trama originale, consapevole della sua realtà filmica, e che quindi subliminalmente (ma nemmeno poi tanto) consegna il concetto di metatestuale allo spettatore impubere, quale io ero all’epoca che quella VHS dalla sgargiante plastica verde entrò in casa mia.

Ora non è che ne fossi consapevole, dato che è tipo uno dei ricordi che ho più radicati della mia videoteca, ma questo riprova come un certo modo di fare comicità non invecchi e che, al passare degli anni, più lo spettatore acquisisce strumenti per la lettura, più strati di comicità si aprono davanti a lui e il film resta godibile senza essere intaccato da quella scomoda questione dello scorrere del tempo.

“Trovo divertente che il roastbeef abbia lo stesso prezzo di una macchina d’epoca.”

Del sopracitato piano del giornalismo, The Great Muppet Caper coglie l’aspetto simbolico più che quello sostanziale, per ricontestualizzare i Muppet all’interno della storia che vogliono raccontare. Questo, per quanto sia un mero pretesto all’avvio della storia, funziona sul piano meramente iconografico.

Kermit gira con un trench grigio, Fozzie ha un approccio minimale sul tema sfoggiando solamente un cartellino “press” sul solito cappello e Gonzo è forse quello più attivamente calato nella parte di fotoreporter, che agisce anche come tale e funziona pure sul piano comico con la macchina fotografica e vero risolutore della vicenda gialla, scattando la fotografia al ladro di gioielli al momento giusto, per poi svilupparla nella, ancora una volta, iconica camera oscura illuminata dalla luce rossa.

“Anche papà parlava bene di lei.”

Anche la redazione del Chronicle è caratterizzata seguendo l’ideale iperuranico delle redazioni giornalistiche newyorkesi come trasmesse alle giovani menti dai fumetti di Spider-Man e Superman. Scrivanie disposte sotto ampie vetrate, di edifici chiaramente riadattati allo scopo da una ristrutturazione sensata e perché tanto i soffitti alti davvero non servono, lampade che pendono dal soffitto, le rotative che vanno fermate per inserire articoli all’ultimo e un caporedattore che porta avanti il giornale col pugno di ferro, affranto dalla concorrenza con le testate maggiori e che mette alla frustra i nostri a causa di un piccolo problema di incompetenza.

Ma del resto, sono raccomandati, capiamoli.

Il tema giornalistico tiene botta per giusto il primo terzo del film, non solo come avvio delle vicende ma anche in tutta la gestione dei personaggi nell’approcciarsi al problema. I nostri hanno un budget limitato e devono cercare un alloggio compiacente nell’indimenticabile Hotel Felicità (dove si può pagare in A) contanti, B) carte di credito e C) svignandosela durante la notte, la scelta che fanno tutti) sede del resto della crew di comparse e vero momento nel quale il film si apre.

Nel momento in cui Kermit viene coinvolto sul piano emotivo, lo sfondo giornalistico vacilla fino a crollare del tutto. Se pure approccia Miss Piggy per avere un’intervista credendola la Regina della Moda di Londra alla quale hanno rubato i gioielli, questo coinvolgimento emotivo trainerà il film per tutto il secondo atto, quello con le canzoni meno efficaci, più virate ad una dimensione sognante, romantica, che terminerà nel momento in cui la maialina verrà incarcerata ingiustamente con l’accusa di furto, non prima di una sequenza onirica che da bambino trovavo agghiacciante ma che adesso, pur trovandolo un tergiversare in un momento musicalmente poco felice, mi fa piegare per il modo in cui il personaggio di Miss Piggy è utilizzato e come questo si ritrovi al centro di un triangolo amoroso o a sfilare in costume da bagno nel tripudio generale, quasi provocazione postmoderna.

Nel terzo atto il film cambia ancora per affondare nel, non saprei come altro definirlo, poliziesco: Miss Piggy evade di prigione e scappa dalla Madama (chiamata così nel doppiaggio italiano) su una moto mentre il resto della banda si infiltra nella galleria d’arte per cogliere i ladri sul fatto e scagionare Miss Piggy.

Ora, se da una parte la scena dell’inseguimento mostra tutti i suoi limiti, e giustamente anche, l’infiltrazione serve allo spettatore ancora un paio di battute geniali e trovate comiche efficaci che risollevano il ritmo del film, e condurlo serenamente al finale, non prima del momento deus ex machina con il maiale volante

Il momento stealth.

Per quanto cerchi di mantenere un certo contegno, sono estremamente legato a questo film, gli voglio bene e sono riuscito ad infilarlo nella Cover Story sfruttando lo stesso gancio del film. È una di quelle cose che riguardo almeno una volta l’anno, quando avevo l’ansia di non riuscire a dormire lo mettevo su e mi rilassavo, il film che quando i nostri genitori non ci sono io e mia sorella riguardiamo mangiando scrauso cibo da asporto e avanzi di frigorifero, recitando le battute a memoria e ridendo ogni singola volta. Il primo film che ho aggiunto alla lista in Disney+ e il secondo che ho guardato (il primo è Tre Uomini e una gamba).

Se un po’ mi dispiace che la corsa dei Muppet si sia arenata mentre ciclicamente un sacco di idee e personaggi vengono tirati fuori dalla naftalina, la dimensione materica della stoffa di quei pupazzi mi fa quasi patire di più la loro assenza, immaginandoli relegati a qualche soffitta, in uno di quei grossi bauli dove vanno a finire gli oggetti d’infanzia che non si ha il cuore di buttare.

È il potere che hanno avuto Henson, Oz e il resto della loro cumpa a imprimere un’anima e una personalità così riconoscibile a dei poveri pezzi di stoffa.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al giornalismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

Novembre 2001: Videogiochi per tutti i gusti | Old!

Novembre 2001: Videogiochi per tutti i gusti | Old!

Saints Row: The Third sembrava un film di Michael Bay | Racconti dall'ospizio

Saints Row: The Third sembrava un film di Michael Bay | Racconti dall'ospizio