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La grande abbuffata ha inventato il foodporn

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La grande abbuffata è uno un film irripetibile e straordinario.

Un disgustoso spettacolo edonista e nichilista allo stesso tempo, completamente amorale, esasperante nella messa in scena del massacro in un crescendo gastronomico.

È un film politico, chiaramente, che racconta senza tante metafore il declino della società borghese che si ingozza fino a scoppiare, declinandola in quattro individui cardine che sono più maschere che uomini; i loro nomi sono gli stessi degli attori che li interpretano perché, essenzialmente, incarnano il ruolo che l’immaginario borghese ha cucito su di loro: Philippe, il giudice, è la legge; Michel rappresenta l’arte; Ugo è uno chef e mostra il lato più edonistico del cibo; infine Marcello, il pilota, è l’avventuriero romantico.

La grande abbuffata è un film squilibrato, completamente privo della retorica che hanno i film contemporanei che trattano temi simili (i supericchi cattivi che schiattano male) mi viene in mente Triangle of sadness o l’acclamata White lotus (di cui era meglio la prima stagione ma, signora mia, adesso che è ambientata in Italia con un’attrice nostrana scoperta da Hollywood, allora è meglio), giusto per citarne due.

Ecco, l’intento pedagogico (traducibile come “voi spettatori dovete aprire gli occhi perché questi sono cattivi e si approfittano di voi guardate come vi trattano per loro non siete niente”) ne La grande abbuffata è talmente assente che travolta dalla tragica impresa dei quattro c’è una maestrina che diventa oggetto sessuale della lugubre comitiva, ma mai una vittima. Questa differenza però non sacrifica niente in termini di ferocia del racconto.

L’equilibrio, più che nella vicenda, si fa sentire nel modo in cui questa è raccontata, che più che equilibrio è distacco, come un Flaubert che racconta delle vicende che portano alla morte la sua Madame Bovary, ma più cinico e surreale, ha qualcosa dell’Angelo sterminatore di Brunel nel crescente stato di alterazione febbrile che coglie i protagonisti, sempre più giù per il sentiero oscuro che li separa dalla ghiacciaia dove vengono depositati i cadaveri.

C’è una scena nello specifico che segna la separazione netta tra una comitiva di allegri gaudenti che si ritira in una casa di campagna per un rigenerante weekend di cibo e sesso, e la follia nichilista che anima i quattro protagonisti: la gara a chi mangia più ostriche.

Nello sguardo di Mastroianni c’è una incontenibile violenza che traspare anche dal meccanicismo col quale infilza e ingolla un gran numero di ostriche. Non a caso è il primo che muore per la sua incapacità di scendere a patti con l’impotenza, decidendo di abbandonare la festa alla guida della Bugatti che ha rimesso in funzione con fervore quasi religioso, e che richiama il mito futurista e ultra borghese della macchina, della velocità, della potenza sessuale maschile sostituita al pulsare dei pistoni del motore eccetera… .

Due aspetti contribuiscono a legano la pellicola a un’immaginario surrealista, per quanto riguarda la gestione dello spazio e del tempo, in questo caso strettamente connesse per quanto concerne la correlazione tra la casa-mondo e il suo tempo sospeso. Saltando la scansione regolare dei pasti il tempo viene annullato, il sonno post-coito ha il gusto dell’oblio, un anteprima della morte, lucida, per godere di tutte le sfumature prima del grande salto.

La casa, in questo senso, non è soltanto la location centrale del film, ma una rappresentazione in scala ridotta del mondo esterno che unisce Oriente e Occidente, natura viva e morte e, forte dell’assenza del tempo di cui sopra, anche il passato delle memorie e dei ricordi (la regressione infantile è presente come rimpianto della gioventù, ma anche come ricerca dell’innocenza e della virilità perduta) mentre ci si prepara ad abbandonare il corpo non con un lamento, ma con un’esplosione.

In questo senso, il film è una grande critica alla crisi di mezza età intesa come privilegio borghese: la fine naturale della vita viene accelerata perché con la realtà non si ha più niente a che spartire.

A dominare la scena c’è l’onnipresente estetica grastronomica degli anni ‘70

Al di là della forma e dei colori, di un eccesso di condimento, dell’enfasi esasperata nella preparazione delle pietanze in una modalità quasi liturgica dal maestro di cerimonia Ugo Tognazzi, non esiste separazione tra la cucina alta e la cucina bassa, tra carne o pesce, tra cibi che ancora adesso riterremmo edibili, e orrori farciti decorati con abbondanti dosi di creme colorate a colpi di sac à poche. Sfido chiunque a non trovare almeno una mezza dozzina di piatti che si vorrebbero provare almeno una volta nella vita, specialmente a causa della estrema materialità con cui il cibo è trattato, molto lontana dall’estetica patinata della rappresentazione contemporanea a base di vernici acriliche e lacche per far risaltare l’idea che il cibo rappresentato vuole ispirare, più che pietanza con la sua naturale imperfezione.

Le torri di croissant, le crep al gran marnier, la monumentale pentola di fagioli e salsiccia e l’inarrivabile bruttezza della montagna di purè.

Al suo esordio a Venezia il film fu sommerso di fischi, troppo sesso, troppe volgarità scatologiche, a guardarlo adesso che un po’ di tette non ci scandalizzano il vero contenuto pornografico è la rappresentazione del cibo come sublimazione di qualsiasi desiderio materiale.

Alla voce “capolavoro”.

I termini in cui questo racconto e questi personaggi sono tratteggiati non esistono più, la borghesia, il ceto medio con le sue ambizioni di grandezza e le sue meschinità è sparito a causa della polarizzazione. Gli ideali tratteggiati dai personaggi adesso vengono ridistribuiti e trasformati in altro ma, nonostante il cambiamento sociale avvenuto in questi cinquant’anni, la carica eversiva disturbante che accompagna La grande abbuffata non si è spenta, ma ha generato un numero infinito di figli (pensiamo a tutto il cinema Coreano degli ultimi anni e il ruolo che svolge il conflitto di classe come motore degli avvenimenti), forse più deboli, meno affascinanti e sicuramente meno crudeli ma, a causa proprio della desaturazione delle tematiche, più digeribile per il grande pubblico.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al cibo, che trovate riassunta a questo indirizzo.

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