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Guida per riconoscere le tue città infestate

Guida per riconoscere le tue città infestate

Credo fu Edgar Allan Poe in un racconto del 1840 ad intuire la grande carica orrorifica della città intesa come organismo urbano.

Chiariamoci, le città sono esistite da parecchio prima e l’umanità al loro interno è comunque capace di generare orrori, ma la dimensione nella quale questa è intrinsecamente connessa alla sua struttura, forse, è proprio da far risalire a L’uomo della folla.

Il racconto tratta di un’entità partorita come emanazione di una forza collettiva che iniziava in quegli anni a prendere coscienza con connotazioni ben definite: la folla, che raggiunge dimensioni considerevoli proprio in relazione all’incremento della densità della popolazione che in contesti differenti come una realtà rurale difficilmente potrebbe raggiungere tale rilevanza.

E in funzione di ciò, mi piace pensare come questo tipo di orrore, anche se sarebbe più facile definirla una serpeggiante inquietudine, sia il primo partorito esclusivamente dalla città e che solo nella città può vivere.

Ma per definire il grado in cui una città possa ritenersi infestata (o maledetta) è possibile analizzare alcuni campanelli di allarme e poter stilare con relativa serenità una guida per riconoscerne i tratti tipici.

Restiamo a Londra per analizzare altre due situazioni praticamente coeve di Poe.

Se un maniaco si aggirasse per le strade di Withechapel assassinando prostitute, e se causalmente si rivolgesse alla stampa tramite lettere provenienti dall’Inferno, non sono sicuro si possa ritenere un parto urbano, quanto più uno dei mali di una modernità che spinge sotto la superficie per uscire in una civiltà avanzatissima e, per certi versi, decadente.

Alan Moore su questo preferisce dissentire, in quanto nel suo From Hell racconta la vicende in maniera tale da renderla impossibile in un contesto diverso da quella Londra specifica, con i personaggi che peregrinano in una ricostruzione spaventosamente accurata della capitale vittoriana, quasi scavando al di sotto del visibile per portarne alla luce la vera e propria anima della città.

Ma in quel caso, è la suggestione letteraria che si sovrappone alla nebulosa realtà dei fatti e, a meno che Moore non passasse di lì in quel momento (cosa che in effetti non è da escludere a prescindere) a fare da testimone oculare delle vicende.

La situazione inizierebbe ad essere sospetta se un nobile dall’esotico nome slavo, o balcanico, vai a sapere che alla fine “sono tutti uguali quelli là” (cit) iniziasse ad acquistare proprietà immobiliari nei più disparati angoli della città. Ecco, questo potrebbe essere un problema. Quando Bram Stoker trasporta il mito del vampiro nella modernità con la chiara intenzione di criticare il colonialismo con anessa spruzzata di xenofobia, ha fatto un altro paio di cose culturalmente rilevanti: rendere il vampiro una creatura infestante a chiara vocazione urbana e cool, e metterci in guardia dalle speculazioni immobiliari: troppa terra in mano a troppe poche persone è sintomo di un problema a livello macroeconomico e urbanistico che presto o tardi si paleserà a presentare il conto, altro che vampirismo.

A spasso per la city a caccia di sbarbe, altro che Carpazi.

Detto ciò, è affascinante come tra i primi romanzi di King appaia Le notti di Salem, che quel topos lo prende pari pari declinandolo in maniera estremamente efficace: si apre un’agenzia immobiliare, una misteriosa cassa viene consegnata al suo indirizzo, la gente inizia a comportarsi in maniera curiosa. E non stiamo parlando della grande crisi immobiliare del 2009.

Nonostante la poetica di King abbia molto spesso una dimensione suburbana, generazionale, più che ammiccare ai mali della città in quanto tale, colloca i suoi orrori nei sobborghi, nelle villette a schiera, in quella regione dove la città smette di essere agglomerato per distendersi a spanne in direzioni tutti uguali, la città generica, la suburbia, che può essere qui, come può essere là e non importa perché quando la dimensione urbana perde di connotazioni caratteristiche diventando periferia, diventa non luogo.

E poi ci sono i casi specifici, come It: Derry è un archetipo potentissimo, il male che prolifera in un luogo dove si accumulano episodi di violenza, piccoli e grandi soprusi, condensandosi in una creatura dal volto solo apparentemente umano che è un male sistemico. Per certi versi Derry è come Twin Peaks, come migliaia di comunità che rappresentano uno sputo sulla mappa dell’America, con i segreti nascosti dietro una facciata di rispettabile ordinarietà.

Il grande avviso di questo genere di narrazione è che dietro le pareti sottili in balloon frame, dietro i vestiti della domenica tirati fuori per la messa, potrebbe annidarsi il male, anche se non è nella fattispecie da un clown che strappa gli arti ai bambini.

Ma già che siamo in suburbia, tanto vale affrontare alcuni altri punti oscuri di quello che nell’immaginario collettivo è diventato il paesaggio più rappresentativo degli States.

Halloween di John Carpenter non è altro che una demolizione del senso di falsa sicurezza dietro il quale si nasconde la borghesia americana, cinta nel suo paradiso suburbano di villette a schiera. Michael Myers arriva a distruggere la quiete, minando per sempre il senso di (finta?) sicurezza dato dalla presunta inviolabilità della propria casa. Non esistono porte chiuse che Michael non possa aprire, non esiste ombra troppo fitta dalla quale non possa spuntare fuori: è un predatore e il suo terreno di caccia sono i quartieri residenziali perché è sicuro che è lì che può fare più male, proprio per quel gusto per la composizione dei corpi e per lo spavento che ha abbondantemente dimostrato in tanti anni di onorata carriera, indipendentemente dal canone che lo spettatore sceglie di adottare.

E di nuovo Lynch alcuni anni dopo con Velluto Blu interpreterà a suo modo il senso di disagio borghese, in quella perniciosa asincronia tra apparire ed essere che contraddistingue il miraggio del sogno americano, non a caso, in uno dei film più rappresentativi degli anni ’80.

Del resto, uno scenario come quello di Zombi di Romero non sarebbe stato possibile in un luogo diverso dalla città contemporanea dove, dalle ceneri dei quartieri commerciali nasceva l’agglomerato, il mostro, la figura che dominerà la scena urbanistica di tutta la fine del XX secolo: il centro commerciale, il Mall, il mostro venuto a togliere il lavoro alle botteghe di quartiere, simbolo di tutti i mali del capitalismo che priva i commercianti locali della sussistenza, impossibilitati a competere con i prezzi delle grandi catene di distribuzione, altri moloch senza volto che con la loro sola presenza trasformano le persone in consumatori, e quindi zombie.

Ci penseranno i saggi di Kolhaas della fine degli anni ’90 a ridare dignità, se non architettonica, accademica a queste (di)sgraziati pezzi dello scacchiere urbano che, proprio come il mostro di Frankenstein cercano di trovare un suo posto nel mondo: mai condannare la creatura, quanto il processo socio-economico che ha portato alla sua formazione.

Sull’altro versante di quella che per anni è stato uno dei dissing letterari insensatamente montati dalle case editrici, c’era Clive Barker, il signore del putrido, dell’orrore pernicioso, del viscido e del disgusto (ma ha anche dei difetti). La sua produzione letteraria è considerevolmente vasta e ha un gusto molto specifico nel raccontare aspetti sinistri e raccapriccianti della realtà. Per quanto adesso quasi nessuno se ne ricordi, ha avuto un momento di popolarità abbastanza grosso quando uscì con l’adattamento di Schiavi dell’Inferno, il romanzo breve dal cui ebbe origine Hellraiser con la sua schiera di Cenobiti.

La sua seconda creatura più nota è comunque Candyman, anche se la versione portata a schermo da Bernard Rose è alquanto differente dalla sua controparte cartacea, è comunque interessante come rifletta sulla problematica delle periferie, dei quartieri dormitorio e dell’edilizia economica e popolare ad alta densità, che ai fini del racconto e non diventa un mondo a se stante con le proprie regole e i propri culti.
Interessante anche come il sequel dà il la ad un’analisi del fenomeno della gentrificazione che, per certi versi, è divento uno dei protagonisti principali dei mutamenti dei centri urbani, al pari della sua sorella minore e più tossica, turistificazione.

Per capirci, la gentrificazione è quando un quartiere viene popolato da una nuova classe sociale a causa dei prezzi estremamente competitivi del mercato immobiliare fino a portare un cambiamento nella struttura sociale del quartiere e a sradicarne la vecchia società. È interessante come i flussi della popolazione assecondino quasi un moto ondoso fatto di espansioni verso le zone di nuova edificazione o contrazioni, appunto, verso quartieri gentrificati.

Similmente, la turistificazione è quando i centri storici non sono più abitati da cittadini, ma prevalentemente occupati da turisti a seguito di uno sfruttamento intensivo tramite affitti a breve termine.

Alla voce “degrado urbano”.

Tre le cose a tema urbano di Barker vale la pena ricordare The Midnight Meat Train, tratto dall’omonimo racconto contenuto nel primo dei Books of Blood, Macelleria mobile di mezzanotte.
Il contesto in cui si muove il racconto è sempre quello della leggenda metropolitana (letteralmente), persone che scompaiono ogni volta che prendono un determinato vagone dove vengono brutalmente macellate e date in offerta a spaventose divinità lovecraftiane abitanti delle caverne ipogee sotto Manhattan; una specie di orrido dazio da pagare per tenere quegli esseri confinati nel sottosuolo.
Una grande metafora di come il trasporto pubblico sia una merda? Probabile, ma mi piace anche pensare al sentimento di paura palpabile che si prova viaggiando di notte in metropolitana raccontato quando New York non era accogliente come adesso, e di come allo svilupparsi della rete di trasporti sotterranea sia associata una mitologia del sottosuolo come terra dei morti. La stessa Madrid ha la sua storia di stazioni della metro abbandonate o chiuse dove succedono strane cose, come anche i tunnel borbonici napoletani o le catacombe sotto Parigi, per citare le prime cose che mi vengono in mente.

Già che ci troviamo a parlare di orrori cosmici, Lovecraft mette in evidenza per contrasto un elemento atipico della vita urbana, la realtà delle comunità isolate.

Del resto, la sua produzione è caratterizzata da una forte connotazione personale, di una messa a sistema (letterario) di esperienza maturate vivendo isolato dalla propria comunità, in alcuni casi, in aperto rifiuto della modernità. Questo ha portato il Solitario di Providence a narrare dell’orrore delle comunità chiuse e isolate, come ne Il festival o ne L’ombra su Innsmouth, dove il viaggiatore incappa nelle usanze di un luogo nuovo e queste spalancano l’orrore davanti ai suoi occhi. Potremmo quasi osservare come l’orrore vacanziero, o turistico, devii dal filone urbano per abbracciare e se non proprio fondare il genere del folk horror à la Wicker Man o Midsommar descrivendo quindi un tipo di comunità diametralmente opposta a quella urbana.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle città di paura, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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