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Midsommar è tipo Suspiria, ma col sole

Midsommar è tipo Suspiria, ma col sole

Dal momento che ho saltato Hereditary: Le radici del male, non avevo grosse pretese da questo Midsommar - Il villaggio dei dannati (da qui in avanti soltanto Midsommar), il secondo lungometraggio scritto e diretto dal cineasta newyorkese Ari Aster. E devo ammettere che tutto mi sarei aspettato, tranne che di imbattermi in una messa in scena del genere.

Già dalla premessa, attraverso la sua forma curatissima, la cura maniacale per le composizioni geometriche e le simmetrie, il film afferra lo spettatore e lo chiude a chiave nei suoi spazi perturbanti. Contemporaneamente, però, tradisce abbastanza in fretta anche i suoi punti deboli: una corsa della trama tracciata con un pennarellone grosso così e una direzione del cast che non si capisce bene se ci sia o ci faccia. Che funziona, in via generale, quando c’è da dare di gomito alle situazioni grottesche o imbarazzanti, ma va decisamente in vacca quando tocca fare i seri o i tesi. Tutto questo per dire che durante la visione del film ho ghignato spesso ma mi sono agitato poco. E magari è giusto così, se non fosse che a tratti mi sono pure annoiato.

Saranno state le droghe di Aster, oh, ma per tutto il film il mio cervello ha sostituito la faccia del protagonista con quella di Chris Pratt.

Sempre nel prologo, vengono messi bene in chiaro tutti i conflitti che attraversano i personaggi, siano questi aperti o sottintesi, ma lasciando pochi dubbi sulla piega che prenderanno gli eventi una volta che il gruppetto avrà abbandonato la propria comfort zone per raggiungere il villaggio svedese di Hälsingland, dove uno di loro, Pelle (Vilhelm Blomgren), ha trascorso l’infanzia in seno a una specie di comune.

Al centro della tensione c’è soprattutto il fragile rapporto tra Christian (Jack Reynor) e Dani (Florence Pugh), complicato ulteriormente dalla recente scomparsa della famiglia di lei, in circostanze tutt’altro che ortodosse. Proprio i due giovani saranno loro malgrado risucchiati dall’atmosfera tanto luminosa quanto malsana che regola la comune e i suoi abitanti, e finiranno per essere coinvolti in un rituale che è, sostanzialmente, la versione distorta della tradizionale festa di mezza estate - Midsommar, appunto - che si celebra in Svezia attorno alla terza settimana di giugno.

Sulla carta, e in parte pure su pellicola, quello realizzato da Ari Aster parrebbe un film fatto apposta per me: l’idea di prendere una roba folclorica e restituirla alla propria dimensione più antica e cruenta, giocandoci sopra tutto il detto-non-detto della vicenda è interessante. In più, Midsommar va a pescare tra i miti di morte e rinascita che mi piacciono tanto, portando sostanzialmente in scena la versione vichinga dei riti di fecondità tipici dell’Orfismo.

Sembrerebbe quasi di essere davanti alla versione assolata del Suspiria di Guadagnino, con il quale il film di Aster condivide, oltre alla radice folclorica, anche il focus sul mondo femminile, tra maternità e menadismo. Poi, qua come là, troviamo una dimensione spaziale circoscritta (dal corpo di ballo/congrega siamo passati alla comune, anche se mi pare di capire che il modello di riferimento sia il The Wicker Man del 1973), e persino il tentativo di costruire la tensione attraverso la negoziazione, più o meno ambigua, con un regolamento e un’agenda apparentemente inviolabili.

Le geometrie concorrono ad accordare gli spazi esterni con quelli interni.

Tuttavia, se il sistema studiato da Guadagnino, per quanto profondo e complesso, era in grado di mostrare la propria coerenza anche al di là dell’esercizio interpretativo, quello di Aster si dimostra piuttosto superficiale. Midsommar, per quanto se la meni con il folclore e l’antropologia, non riesce a mantenere le premesse, limitandosi a spingere una serie di passaggi meccanici e piuttosto scontati, soprattutto per quel che concerne l’evoluzione e le azioni dei personaggi. E a formulare delle tesine che, oh, magari sbaglio, mi sono parse un po’ ambigue e vagamente misogine.

Poi c’è il problema della tensione non pervenuta, sostituita dalla noia di cui sopra, ed è un peccato, perché nonostante tutto, Midsommar resta un lavoro visivamente fantastico, con tutti i suoi giochi prospettici “notice me, senpai Kubrick”, che ribaltano continuamente il dentro con il fuori, la luce con l’oscurità, e tirano su una gran bella atmosfera. Solo che, in mancanza di sostanza, il film finisce per restarsene a bordo campo a fare gli esercizi di stile.

Ho visto Midsommar in anteprima in via di una proiezione stampa alla quale siamo stati invitati. Uscito negli Stati Uniti lo scorso giugno, qui da noi il film lo vedremo in sala a partire dal venticinque luglio.

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