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Outcast FOTY 2019

Outcast FOTY 2019

Ed eccoci al secondo giorni di OTY, chiaramente dedicato ai FOTY. Ieri, infatti, vi abbiamo parlato delle serie che assolutamente ci hanno più fatto provare piacere fisico nel 2019, oggi si passa ai film.

Buona lettura e buon anno!

Davide Mancini

Ho aspettato la fine dell’anno per guardarlo, ma dovevo lasciarlo nel mio 2019 per questioni meramente personali. Ho fatto bene, perché Storia di un matrimonio (Netflix) di Noah Baumbach è di sicuro il mio film dell’anno, perché mi è entrato sottopelle, grazie alle perfomance pazzesche di Adam Driver e Scarlett Johansson, ma soprattutto perché è una fotografia lucida, maliconica e magnetica della fine di una relazione, con le sue incoerenze, i suoi egoismi e la necessità di attraversare una fase di dolore lacerante, fatta di ricordi e mancanze, ma anche di meschinità e bassezze. È un film che colpisce forte e lascia una sensazione di vuoto dentro, ma il modo in cui i due personaggi si svelano l’un l’altro e con lo spettatore durante le due ore e venti di intreccio crea un legame empatico forte, che alterna magistralmente piccoli eventi quasi insignificanti, risate frugali e picchi drammatici, come la prorompente sequenza del litigio o l’esecuzione di Being Alive da parte di Adam Driver, che si prende la scena per qualche minuto riuscendo a condensare rammarico, sofferenza, amore, ironia e rassegnazione in pochi istanti. Potrei sbrodolare ancora sulla fotografia granulosa e densa di Robbie Ryan o sul montaggio chirurgico di Jennifer Lame, ma è nel suo insieme che Marriage Story funziona e raggiunge un equilibrio quasi perfetto, quello perduto da Charlie e Nicole.

Di quelli visti al cinema, mi piace citare Le Mans '66 - La grande sfida di James Mangold, perché lo sport è sempre un mio punto debole, il motorsport peggio, ed è comunque raro trovare un film ispirato a storie di sport realmente accadute che riesca a intrattenere senza essere didascalico o verboso. Le Mans '66 ci riesce, perché è prima di tutto un racconto appassionante di esseri umani dalle ambizioni incredibili e dall’intuito ancora più ammirevole. E questo lo rende un film caldo, piacevole, emozionante. Poi ci sono le macchine, Le Mans e le scene in pista, che rendono sempre tutto migliore.

Stefano Talarico

Nonostante un Tarantino e uno Scorsese (più il primo che il secondo, devo dire), roba che comunque non succede mica tutti gli anni, il mio film dell’anno è Parasite di Bong Joon-ho, quello che se non c’avete il copincolla nelle mani e Wikipedia sul telefono è semplicemente “massì, quello di Snowpiercer”. La pellicola di Bong (ahah, “Bong”), sul finire del 2019, è riuscita a vedere il carico da novanta del già clamoroso Noi e migliorarlo, consegnando agli annali un film pazzesco e pazzo, che non si fa problemi a spaziare dalla comicità al thriller pur di tenerti sempre lì, sulla corda, ché non puoi davvero mai tifare per nessuno, figurarsi essere tranquillo. Per di più, proprio come nel film di Jordan Peele, è bello constatare come il messaggio di fondo dei migliori film dell’anno sia che i ricchi fanno cagare, che il capitalismo è una condanna sociale in grado di deformare chiunque e che, di base, non c’è redenzione, visto che c’abbiamo la bestia in casa. Buon 2020!

Marco Esposto

Avengers: Endgame. Punto. Ma sì, dai, anche quest’anno non posso fare finta di nulla. Parasite è bellissimo, il Pinocchio di Garrone mi ha affascinato, ma quella scena coi portali, quel martello e quel grido seguito da un sussurro sono il sogno bagnato di qualsiasi fan Marvel. Sono un debole.

Davide Moretto

Il 2019 è stato un anno nel quale ho bazzicato poco i cinema, e praticamente solo per i mega blockbuster. Alla fine scelgo Avengers: Endgame, sia perché credo sia una fra le rarissime volte in cui un film di due ore e mezza non mi annoia neanche per cinque minuti, sia perché l'ho vissuto insieme agli amici, e anche alla famiglia, come un evento vero e proprio. Mi son ritrovato a parlare di paradossi temporali, dei personaggi, di come i fratelli Russo siano riusciti a tenere sotto controllo decine di personaggi in maniera coesa e credibile. Sicuramente non è il miglior film del 2019 (e ci mancherebbe) ma, tutto considerato, lo eleggo mio film del 2019.

Francesco Tanzillo

Il mio film dell’anno è 6 Underground di Michael Bay, in prima istanza perché non vincerà mai niente nonostante meriti tantissimo. Non è un film che sostanzialmente aggiunge molto allo stile del regista, ma non lo sono nemmeno C’era una volta a… Hollywood o The Irishman, per dire. Al contrario, sul piano della fruizione dell’opera, compie un grosso passo in avanti, emancipando completamente il genere dalla sala cinematografica con schermo grosso, che è un po’ il discorso che sta portando avanti Netflix con le proprie produzioni da qualche anno a questa parte.

Ma non solo.

Mentre il concetto di direct-to-video ha sempre contraddistinto produzioni di serie B, questa è l’esperienza completa Michael Bay pret-a-porter, fortunatamente al netto di orribili modelli poligonali di robot che si scazzottano indistinguibili sullo schermo. Non so se vi è mai capitato di sentire l’impellente bisogno di riguardare immediatamente una sequenza dell’ultimo film visto al cinema... ecco, questo lo si può fare a ripetizione, senza aspettare l’uscita in home video o dover piratare il film.

6 Underground è il Mad Max: Fury Road dei Direct-to-Streaming

Natale Ciappina

Il mio anno cinematografico è stato per così dire inusuale: ho visto abbastanza film, almeno relativamente, col mio contatore su Letterboxd che dovrebbe assestarsi attorno quota 125 pellicole. Non tanti ma neanche pochi, suvvia; e però sono andato pochissimo al cinema, tanto la maggior parte dei film che ho visto sono stati dei recuperoni di lungometraggi persi per strada durante gli anni precedenti. Tipo Atto di forza, l'originale: ma che filmone è? Clamoroso. Comunque, qualcosa di nuovo l'ho visto, e quello che più mi ha emozionato -- anzi, mi ha ridotto a uno straccio bagnato -- è stato I Am Easy to Find, l'ultimo film di Mike Mills (Beginners e Le donne della mia vita); in sinergia con i The National, che si sono occupati della colonna sonora, I Am Easy to Find riesce a parlare di vita vissuta, dolori, amori e delusioni di un'intera vita che, appunto, scorre via in uno schiocco di dita; anche in una ventina di minuti. Il corto è disponibile su YouTube, quindi armatevi di un bel paio di cuffie e, soprattutto, di un pacchetto di fazzoletti; fidatevi che vi serviranno.

Federico Molinari

Due parole: grazie Quentin. È stato un 2019 non ricco di film visti e votati su Letteborxd, è stato però un 2019 che ha visto il ritorno di un Tarantino maturo, quasi inusuale, capace di creare un ottimo film tarantiniano - con attori di altissimo livello - che però alla fine è difficile da definire come un-film-di-Tarantino, e non a caso ha ricevuto molte critiche da chi si aspettava di vedere Kill the Reservoir Pulp-Basterds of Hollywood (un po’ vi odio). Quindi, alla fine, il mio FOTY è C’era una volta a… Hollywood, ma non sarebbe giusto non citare anche quel Joker che ha giustamente fatto parlare tanto di sé, grazie a una prova attoriale di Joaquin Phoenix vicina alla perfezione. Menzione speciale anche per The Dirt, che grazie al suo sex, drugs and rock n roll mi ha fatto riprendere in mano la chitarra ormai sotterrata da anni di polvere, mentre il vero FOTY, che però non può esserlo veramente, non essendo propriamente un film di quest’anno, è Apocalypse Now - Final Cut, una riedizione uscita nel 2019 che mi ha permesso di vedere per la prima volta al cinema una pietra miliare del cinema. Grazie, Francis, per questa nuova edizione.

Stefano Cappuccelli

Appena dopo aver visionato Hereditary – assieme a Climax di Noè, miglior film del 2018 – non ho potuto fare a meno di considerare l’importanza di mettere in scena un film di quella fattura, nonostante l’acerbità tipica dell’opera prima. La cosa è sorprendente, e lo è ancora di più se consideriamo la crescita valoriale dei numerosi registi da sempre affrancati al brivido. Carpenter, per esempio, si è consolidato nel tempo, mostrando una penna e una mano a mio avviso senza eguali. Eppure non ebbe, neppur lontanamente, un debutto similare ad Aster: Dark Star era senz’altro un film discreto, forte di un soggetto davvero notevole, eppure mancava di quella matrice Carpenteriana che avremmo visto nei film successivi o, meglio, che avremmo visto a partire dal film seguente, Distretto 13 – Le brigate della morte, fra i migliori tre del regista, nonché capolavoro senza tempo. Al contrario, Aster debutta da regista consumato, mostrando non solo una grandissima qualità da soggettista e sceneggiatore, ma denotando uno zelo tecnico davvero sorprendente, veicolando sensazioni e suggestioni attraverso soluzioni registiche pressoché perfette: un uso intelligente e ricercato dei piani sequenza, campi sensazionali che si combinano a una fotografia sublime e orrorifica. Questo era Hereditary, e nel momento stesso in cui appresi che Aster, sempre per A24, voleva tentare Robin Hardy e il suo The Wicker Man; la reazione fu grossolanamente simile a quella di un quattordicenne alle prime prese con brazzers.

Midsommar è un film tecnicamente curato quanto narrativamente impeccabile. Una perfetta e munificente commistione di suoni e immagini che alzano vertiginosamente l’indice qualitativo dell'odierno standard horror. Un gioco di sensazioni sinistre e aliene, quelle che si innescano nelle profondità della Svezia. Un folklore vivido, violento e naturalista al contempo. Un rimando estremo e allegorico all’edonismo del mondo contemporaneo. Midsommar logora, non spaventa. Faccio difficoltà a inserirlo fra i canoni tradizionali; un horror dell’anima e della mente, in cui la semplicità della carne, seppur più volte palesata in fulciana memoria, passa irrimediabilmente al secondo posto, sconfitta da un brivido primevo… runico. Ribadisco, Midsommar è un film tecnicamente curato nel profondo, con ripetute estemporanee di colori dai richiami floreali tipicamente estivi (sì, OK, sembra un vino). Una fotografia magistrale ed evocativa incornicia quello che ritengo senza alcun dubbio il miglior film dell’anno.

Andrea Maderna

Credo che il miglior film del 2019 sia Parasite ma nella classifica dei miei film preferiti del 2019 sta al terzo posto, perché al secondo c’è Noi, che parla delle stesse cose ma con più morti ammazzati, e al primo Midsommar, che ho guardato con gli occhi e la bocca spalancati dall’inizio alla fine. A quel che ha scritto Stefano qui sopra, aggiungo una prima mezz’ora dalla potenza quasi insopportabile, una Florence Pugh fuori dal mondo, veramente l’attrice più devastante emersa negli ultimi anni, e la bellezza lancinante con cui il film racconta attraverso le sue follie e i suoi orrori una relazione tossica. Compreso quel che finale che trovo quasi più agghiacciante nel suo essere metafora che nel suo senso letterale. Mamma, che film.

Ah, aggiungo che non ho ancora visto Storia di un matrimonio ma ho la sensazione che avrebbe potuto soffiare il posto a Midsommar. Aggiungo anche che il mio io più profondo, quello ossessivo compulsivo, è contento che Piccole donne sia uscito in Italia nel 2020, così non vale infilarlo qua dentro e non devo litigare con me stesso per decidere fra lui e Midsommar.

Francesco Alinovi

Parasite, un po' perché non mi aspettavo un film così, un po' perché ha il ritmo di un kolossal Disney ma è capace di presentare tutte le sfumature dell'animo umano e attraversare tutti i generi, dalla commedia al thriller.


Andrea Peduzzi

Parlando di cinema, il 2019 mi ha regalato parecchi film deliziosi, alcuni davvero buoni e altri persino ottimi, ma nessuno davvero folgorante, ahimè. Per dire, non ho avuto uno Spider-Man: Un nuovo universo, un Mad Max: Fury Road o un Il filo nascosto, ma “soltanto” roba come Parasite di Bong Joon-ho, Diego Maradona di Asif Kapadia, The Irishman di Scorsese e 6 Underground di Michael Bay, giusto per elencare i meglio. Ed è proprio quest’ultimo che, a partire da ora e di pancia, nomino mio personale film dell’anno appena passato. E non perché sia necessariamente la cosa migliore che abbia girato il regista californiano, eh, ma semmai perché la dimensione, diciamo così, “televisiva” del committente lo ha obbligato a infilare un po’ meno roba nelle varie inquadrature, permettendo anche a un omino come me di leggerle e reggerle.

Stefano Calzati

Dovessi ragionare in maniera razionale, direi Parasite, ma proprio per distacco, con questa villa meravigliosa (razionalista pure lei) che diventa una perfetta allegoria in metri quadri della società capitalista e del suo effetto sulle persone, intrappolandole nell’illusione della rivalsa sociale, masticandole, e sputandole quando hanno perso il loro sapore. Però Tarantino è sempre una scheggia impazzita e vederlo, “sentirlo” chiaramente addirittura, così sentimentale in C’era una volta a… Hollywood mi ha lasciato assolutamente spiazzato. Per me, l’immagine cinematografica più forte dell’anno è sicuramente Sharon Tate che guarda Sharon Tate al cinema, divertita, sognante, felice, quegli occhi illuminati in eterno dallo schermo; per sempre impressi su una pellicola che cancella quel 9 agosto ’69 come un incubo, risolto tra le urla nel modo più tarantiniano di sempre, dalla devastante accoppiata Pitt-Di Caprio, in quello che è probabilmente il film meno tarantiniano di Quentin.

Stanlio Kubrick

Parasite. Almeno credo, chi lo sa, magari Star Wars Episodio L'Ultimo è bellissimo e io mi sto perdendo qualcosa di grande. È stato un anno felice ma non felicissimo per certi generi che sono solito bazzicare, anche Bong li ha bazzicati in passato (The Host, Snowpiercer), qui invece l'ho amato perché ha fatto uno di quei film universali, con dentro tutto, che usa i generi per raccontare una storia e che non ha alcun problema a cambiare tono da una scena all'altra se farlo ha un senso dal punto di vista narrativo. È una commedia degli equivoci all'italiana (tipo un De Filippo alla coreana, e non credo che Gianni Morandi sia un caso), una tragedia, un thriller, un film di botte, un film di truffe, una sbrodolata autoriale: è la storia di due famiglie e Bong usa qualsiasi mezzo abbia a disposizione per raccontarla, dimostrando che, se volesse, sarebbe in grado di trasformare in cinema qualsiasi cosa e che non c'è genere o approccio o taglio o tono che non gli appartenga.

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